giovedì 10 settembre 2009

06. I longobardi

Il sogno di Giustiniano di ricostituire il vecchio Impero dura pochi anni e già sull’Italia cala l’ombra dei Longobardi. Come tutte le altre popolazioni barbariche, ma forse ancor di più, i Longobardi sono piuttosto individualisti e vivono in grandi clan, detti fare, ciascuno dei quali è organizzato autonomamente intorno alla figura di un capo o duca. Nel 568, alla guida di Alboino (561-572), un grande esercito si muove intenzionato ad attraversare le Alpi: sono 35 duchi con le rispettive fare, insieme a numerosi alleati, Svevi, Ostrogoti, Gepidi, Sarmati, Bulgari, Turingi, Avari e Sassoni, seguiti da donne, vecchi e bambini, dai carri con le masserizie e dagli armenti, in tutto cinquecentomila persone. È uno spettacolo impressionante per i locali vedere scorrere impotenti, sulle proprie terre, quella interminabile fiumana di uomini e animali, che rapinano e devastano! L’intenzione è chiara: conquistare l’Italia e dividersela. E così fanno. A mano a mano che conquistano un territorio, un duca si ferma ad occuparlo, si impossessa di tutte le terre e rende schiava la popolazione, mentre tutti gli altri avanzano, senza insistere troppo se trovano dei luoghi ben difesi. Così, a poco a poco, si impossessano di gran parte della penisola italica, che non invadono in modo sistematico, ma occupano a macchia di leopardo. Alboino si insedia a Pavia, ma non ha il tempo di occuparsi dell’organizzazione del nuovo regno, perché muore poco dopo aver coronato con successo la sua opera.
Dopo la sua morte, i Longobardi si mostrano insofferenti nei confronti di un istituto monarchico, che evidentemente non fa parte del loro bagaglio culturale, e si avviano verso un decennio di anarchia, in cui ogni duca si regola all’interno del proprio territorio come meglio crede, disinteressandosi degli altri. Anche se minacciata dai longobardi, Roma è ancora in mano ai bizantini e il suo vescovo rimane uno dei pochi punti di riferimento per i bizantini, in un’Italia, che appare loro sempre più lontana. Il papa ha bisogno dell’imperatore e delle sue truppe, ma anche l’imperatore ha bisogno del papa, il quale potrebbe voltargli le spalle e stringere buoni rapporti coi nuovi arrivati. È un rapporto equilibrato, quasi paritario, in cui il papa può far sentire la propria voce e avanzare le proprie pretese, senza rischio di ritorsioni. Così, Pelagio II (579-90) ricomincia a rivendicare il primato petrino, senza essere contrastato.
È solo quando si sentono minacciati da franchi e bizantini, che i duchi longobardi decidono di unirsi sotto un solo re e scelgono Autari. Per prima cosa Autari (584-90) conferma, come la capitale del regno, Pavia, che ben si presta allo scopo, essendo la città meglio fortificata d’Italia, impone un tributo ai sudditi, riorganizza l’esercito e chiama all’ordine i duchi ribelli, quindi si adopera con parziale successo nel creare un clima disteso con i potenziali nemici, in particolare coi franchi, coi Bavari e col vescovo di Roma, mentre rimangono tesi i rapporti coi bizantini. In realtà, a differenza di quanto è avvenuto con Odoacre e Teodorico, che si erano mossi con benestare di Bisanzio, i Longobardi hanno agito autonomamente e si sono imposti unicamente con la forza delle loro armi: nessun legame, dunque, li unisce all’imperatore.
Autari non riesce ad unificare l’Italia, e nemmeno ci riescono i suoi successori, a causa di due ostacoli, che si rivelano insormontabili. Il primo è rappresentato da alcune roccaforti bizantine, che sono situate in prossimità del mare: per la verità, nei loro confronti i Longobardi non provano un grande interesse, anche perché non amano il mare. Il secondo ostacolo è costituito dai possedimenti del papa , che pur non costituendo un vero e proprio Stato, si estendono per buona parte dell’Italia centrale e sono difesi dal papa attraverso una condotta politica, per certi versi ambigua, ma efficace. Giocando sui rapporti di potere, che oppongono franchi e Longobardi, il papa fa sì che i franchi gli promettano la donazione di un “regno” in cambio del suo appoggio, mentre i Longobardi evitano di attaccarlo per paura di entrare in guerra contro i franchi.
C’è poi un’altra rimarchevole differenza tra i Longobardi e i barbari che li hanno preceduti: mentre Odoacre e Teodorico avevano avuto modo di formarsi culturalmente all’interno dell’impero romano, i duchi longobardi ignorano la civiltà romana e conservano una cultura puramente tribale. Perciò Autari si trova a partire quasi da zero e, di conseguenza, i risultati non sono brillanti. Privi di ogni senso del diritto, i Longobardi si impossessano di tutto e lo difendono con la forza, mentre i vinti vengono trattati come schiavi. Loro, i vincitori, da buoni nomadi, diffidano delle città e preferiscono insediarsi nelle campagne, anche se in alcuni casi accettano di raccogliersi in quartieri fortificati (le curtis). L’economia longobarda rimane perciò confinata nelle campagne ed è un’economia agricola e autarchica, con scarsi interessi nei confronti delle attività commerciali e chiusa agli scambi culturali e al progresso.
Agilulfo (590-615) sale al trono nello stesso anno in cui, viene elevato al soglio pontificio una delle più straordinarie figure di papa, Gregorio Magno (590-604), il quale è reduce di una folgorante carriera, che lo ha portato a divenire prefetto di Roma (572), prima di decidere di abbandonare la politica e dedicarsi alla vita monastica. Agilulfo si converte al cattolicesimo (615), a ciò indotto dalla moglie Teodolinda, alla quale, si racconta che, qualche anno prima, Gregorio avrebbe fatto un prezioso omaggio, la cosiddetta corona ferrea, che ha un anello ricavato da un chiodo della Santa Croce e che, per molti secoli, sarà considerata un importante simbolo sacro e di potere. Gregorio si viene a trovare di fronte a un dilemma: deve continuare ad aspettare la ricostituzione dell’unità dell’impero o appoggiarsi al re longobardo? Al momento, la situazione non gli sembra sufficientemente chiara e non sente in grado di decidere da che parte stare: i longobardi sono troppo vicini e vogliono, a tutti i costi, impadronirsi di Roma, i bizantini sono troppo lontani e non sembrano in condizione di ristabilire l’unità dell’impero. Intanto si gode il suo status di effettivo capo di Roma e di “più grande proprietario terriero d’Occidente” (DUFFY 2001: 85). Ama definirsi servus servorum Dei e non s’interessa di politica. Vorrebbe un’Europa unita nella pace e nella fede.
I Longobardi intanto mettono in luce alcuni limiti: non sanno mantenere buoni i rapporti coi loro potenziali nemici, e cioè i franchi e i bizantini, così come non sanno rendere solido il potere del re, che è continuamente messo in discussione dall’invincibile autonomismo dei duchi. Devono trascorrere oltre 70 anni dall’invasione di Alboino prima che un re longobardo, Rotari (636-52), introduca nel suo regno un codice di norme giuridiche, il cosiddetto Editto di Rotari (643), il quale, tra l’altro, conferma la scarsa influenza che ha su questi barbari la cultura romana. Queste norme, infatti, ricalcano principî tratti dai costumi tribali, che vengono adattati ai nuovi tempi e alla nuova situazione. I longobardi, tuttavia, fanno propria la giurisdizione romana che regola la proprietà privata: adesso che essi si sono appropriati dei territori conquistati, ci tengono a salvaguardare il “loro” patrimonio immobiliare e, di conseguenza, l’Editto commina pene severe per i ladri. Ai servi viene riconosciuto qualche diritto, ma si stabilisce che essi debbano restare tali per tutta la vita. Ai contadini poi viene fatto divieto di riunirsi in modo sedizioso, affinché l’ordine sociale non abbia a subire sussulti e cambiamenti. Ne risulta il quadro una società duale e statica, squilibrata a vantaggio dei vincitori e delle classi possidenti.
Finora i Longobardi non sono riusciti né a costituire uno Stato unitario, né a sottomettere tutta l’Italia: in mano ai bizantini rimangono le isole maggiori, parte della Puglia e della Calabria e l’Esarcato di Ravenna, che comprende Roma. Ci prova Liutprando (712-44) con una politica articolata in due punti: primo, blandire il papa e metterlo dalla propria parte; secondo, cacciare i bizantini dall’Esarcato. Al papa dona il feudo di Sutri (728), dando così formalmente inizio al suo potere temporale, e gli garantisce il proprio appoggio, oltre all’assicurazione che avrebbe difeso gli interessi spirituali della chiesa, e a suggello di questo suo impegno, si proclama “principe cristiano e cattolico”. Adesso Liutprando può passare al secondo punto. Per due volte cerca di conquistare Roma (728 e 742), sottraendola ai bizantini, ma non vi riesce, anche per l’opposizione dei papi, Gregorio II (715-31) e Gregorio III (731-741), che, evidentemente, preferiscono il debole controllo dell’imperatore, piuttosto che la pressante presenza di un re locale. Il papa sa che, in caso di un successo longobardo, potrà conservare il suo feudo di Sutri insieme al suo indiscusso primato spirituale su tutti gli altri vescovi d’Occidente, ma questa prospettiva non lo appaga. Leone Magno e Gelasio hanno vagheggiato una prospettiva ben più promettente, e rassegnarsi a svolgere il ruolo di un semplice vescovo longobardo pare, al momento, inaccettabile. Il papa, però, non vede di buon occhio nemmeno la dipendenza nei confronti dell’imperatore, che gli offre solo la prospettiva di essere uno dei cinque più prestigiosi vescovi cristiani, e nulla di più, anche se questa appare, al momento, la soluzione più plausibile e rispettosa della tradizione. Il papa, infatti, è, e si sente, formalmente, un suddito dell’imperatore bizantino.
I rapporti tra il papato e Costantinopoli però non sono buoni, soprattutto dopo che l’imperatore Leone III (717-741), ha vietato il culto delle immagini sacre, cosa che non piace al papa. A ciò va aggiunto il fatto che il papa si trova a dover fronteggiare anche la pressione araba, e sa che l’imperatore è troppo lontano per potergli essere di grande aiuto nella fattispecie. C’è però all’orizzonte una terza opzione, che consiste nel puntare sulla forza emergente dei i franchi, ma, per il momento, essa non sembra alimentare eccessive speranze. Un primo appello di Gregorio III a Carlo Martello cade nel vuoto. Carlo, infatti, non ha alcuna intenzione di rinunciare all’amicizia coi longobardi, che sono imparentati con la sua stirpe. Ma il papa non demorde e continua a seguire, con crescente interesse, quanto avviene nella corte merovingia, il cui trono è vacante dal 737 e dove il maestro di palazzo, Pipino d’Héristal, dopo essere riuscito ad imporre, con la forza, la propria dinastia (741), è in cerca di una forte legittimazione, che lo metta al riparo dalle mire di potere degli avversari. In attesa di futuri eventi, per il momento il papa preferisce rimanere sottomesso all’imperatore, il che significa che ogni nuovo papa deve chiedere e pagare profumatamente “il mandato imperiale per la propria consacrazione” (DUFFY 2001: 103).

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