giovedì 10 settembre 2009

02. I barbari

Mentre i romani consolidano ed ampliano il loro impero, il Nord-est d’Europa e l’Asia Anteriore sono abitati da una miriade di clan e tribù, che conducono un’esistenza paragonabile a quella delle popolazioni che affollavano la Fertile Mezzaluna tra meso- e neolitico (cfr. capp. 7-8). Neanch’esse non conoscono la scrittura, né il diritto, né la proprietà privata, né la stratificazione sociale. Ma c’è un’importante differenza: mentre le popolazioni del Vicino Oriente rappresentavano esse stesse la massima espressione culturale del momento e non avevano punti di riferimento davanti a sé, le tribù di Eurasia hanno la possibilità di confrontarsi con una civiltà di gran lunga superiore, vale a dire proprio con quell’immenso impero romano, col quale confinano. Sono i cosiddetti barbari.
A causa di un progressivo incremento demografico, clan e tribù si trovano a vivere sempre a più vicino contatto fra loro e, come già era accaduto nel Vicino Oriente, anche queste tribù avvertono il bisogno di realizzare società sempre più ampie e meglio organizzate, le sole in grado di rispondere efficacemente alle sfide del tempo, ma la loro massima organizzazione sociale non va oltre il dominio. Tra le diverse popolazioni i rapporti sono generalmente pacifici, anche se non mancano le competizioni e i contrasti, le azioni di rapine e le razzie, le iniziative tese a cercare nuovi spazi da sfruttare e nuove risorse da consumare, e non mancano nemmeno i tentativi di imporsi militarmente, perpetrati da qualche capo particolarmente ambizioso, che riesce a raccogliere intorno a sé diverse tribù e a guidarle in azioni di vere e proprie conquiste militari, fino a fondare, appunto, un dominio personale, ma, a quanto ne sappiamo, in nessun caso si tratta di entità territoriali e politiche rilevanti e, tanto meno, di civiltà urbane paragonabili a quelle del Vicino Oriente Antico.
Col tempo va costituendosi un numero crescente di dominî, dove diversi gruppi clanici e tribali sono uniti sotto un capo comune, che è prescelto in virtù delle sue qualità personali e in vista del perseguimento di una qualche utilità di interesse generale, il più delle volte attraverso azioni armate. Il capo non rimane in carica a vita, ma solo fino a quando appare adatto a svolgere il suo ruolo o fino a quando non emerge un nuovo personaggio, più capace e più forte, in grado di soppiantarlo. Solo i domini più estesi e duraturi riescono a meritare l’onore di un nome: Goti, Ostrogoti, Visigoti, Vandali, Unni, franchi, Longobardi, Eruli, Suebi, Bavari, Frisoni, Cimbri e Teutoni, insieme ad altre decine di nomi rilevanti, che sono ricordati dalla storia, costituiscono solo la parte emergente dell’iceberg, mentre la parte sommersa è rappresentata da una miriade di piccole tribù, che rimarranno senza nome e senza storia. Quei nomi “eccellenti” sono, dunque, il risultato dell’azione di alcuni capi ambiziosi e fortunati, che, allo scopo di perseguire qualche obiettivo comune, come quello di sfruttare meglio il territorio, depredare una tribù vicina, difendersi dalla minaccia di un nemico comune o intraprendere un’azione di conquista, riescono a riunire un certo numero di tribù e farle convivere come se fossero un unico popolo, almeno per qualche tempo.
Ad essere favoriti sono certamente i domini maggiormente attenti a ciò che succede sia al proprio interno che all’esterno. Sapere che un capo-clan medita propositi antitetici ai propri interessi può motivare un altro capo ad agire in un modo appropriato; sapere dell’esistenza di una popolazione debole o in crisi, può indurre un capo tribù ad organizzare una spedizione armata, allo scopo di razziare il suo territorio; sapere che il capo di un dominio sta tentando di espandersi, può indurre un capo tribù a sottomettersi spontaneamente o di cercare a sua volta l’alleanza con altri capi tribù allo scopo di difendersi o di tentare un contrattacco, oppure di cercare altri spazi, in cui insediarsi. Molto sviluppata dev’essere, dunque, la rete di informazione e intensa l’attività diplomatica e di spionaggio dei capi tribù e dei loro “aiutanti”. È in questo quadro che vanno visti gli sconfinamenti di tribù barbariche, che razziano quel che possono e si spingono, se non trovano resistenza, fin nel cuore dell’impero, oppure si limitano ad esercitare una pressione di confine o accettano le condizioni offerte loro dai romani.
Grazie a questa fitta rete di rapporti, alcune popolazioni barbariche vengono raggiunte dal messaggio cristiano e i capi più ambiziosi e più aperti alla “modernità” non si lasciano sfuggire l’occasione di abbandonare il vecchio politeismo tribale e accogliere la nuova e più evoluta religione, che consente loro di coltivare sogni di potere prima inimmaginabili, ossia di diventare re di grandi popoli. Generalmente è la versione ariana del cristianesimo (quella che ammette l’esistenza di un solo Dio e nega la divinità di Cristo e dello Spirito Santo) ad attecchire presso le popolazioni barbariche, perché risulta più facilmente comprensibile e accettabile.
Fino al III secolo a nessun capo barbaro viene l’idea di conquistare l’impero romano, tanto profondo è il divario culturale, organizzativo, politico e militare fra i due mondi. Per il momento, i barbari vedono nei territori romani solo dei luoghi ricchi di beni da depredare e sfruttare. Così avviene che, fra II e III secolo, sotto la guida di un capo, Catti, Alemanni, Goti e franchi superano ripetutamente i confini dell’impero, seminando paura e saccheggiando a più non posso. Nel IV secolo, man mano che l’impero si indebolisce, queste incursioni divengono sempre più frequenti e audaci, e i romani, facendo sempre più difficoltà difendersi, imparano a far buon viso a cattiva sorte e cominciano ad arruolare i barbari nei propri eserciti e a consentire il loro insediamento nei territori dell’impero, in prossimità dei confini, in pratica impiegandoli come scudo difensivo. Ma ciò non si rivela sufficiente ad arrestarne gli attacchi, che ormai si susseguono senza tregua, e culminano nella sonora sconfitta inflitta ai romani dai visigoti ad Adrianopoli (378), sconfitta che non rimarrà isolata. A lungo, le regioni dell’impero rimangono in balìa degli attacchi disordinati di orde barbariche, che accarezzano l’idea di una vita migliore e la possibilità di impadronirsi di un mondo da sogno, dove nessuno dovrà più soffrire la fame e tutti potranno vivere da gran signori. Lo stato di guerra continua e lo stretto e duraturo contatto con la superiore cultura di Roma, fanno sì che i barbari si diano un’organizzazione sempre migliore e maturino la coscienza della loro arretratezza e si civilizzino. In una parola, si rafforzano.
La relativa debolezza dell’impero romano è vista da molti leader barbari come una ghiotta occasione per unire sotto il proprio comando diverse tribù, con la promessa di guidarle verso una vita migliore. «A Occidente -vanno dicendo- ci sono terre in abbondanza, ricche di ogni bene, che aspettano solo di essere conquistate. Quale migliore occasione per unirci e partire? Se la sorte ci sarà favorevole e riusciremo a sconfiggere i romani, avremo terre in abbondanza e potremo vivere nella bambagia.» Allettati da questa prospettiva, molti capi clan accettano di buon grado di stringersi sotto la guida di un capo comune e, così, decine di migliaia di uomini cominciano a muoversi in massa all’inseguimento di un sogno. Alle loro spalle non lasciano case, perché non ne possiedono, e nemmeno proprietà private di terre, dal momento che non conoscono la proprietà privata: tutti i loro averi consistono in una tenda, gli abiti che hanno addosso, qualche utensile, cibo per due o tre giorni, armi, animali e qualche carro. I barbari, perciò, non hanno necessità di mettere radici profonde in alcun luogo, ma sono sempre pronti a rimettersi in cammino se un qualsiasi evento li minaccia: in genere si tratta di carestie o nemici che incombono.
Ad ondate e disordinatamente, queste rozze popolazioni barbare si muovono alla ricerca di bottini e di terre in cui stabilirsi. Esso non ha una meta precisa: saranno le circostanze del momento a guidarle. Di solito i barbari riescono ad occupare un territorio con relativa facilità, ma non altrettanto facilmente si rivelano capaci di conservarlo, perché vengono spazzati via da altri barbari, che sopraggiungono, o da qualche generale romano. Talvolta, però, e sempre più spesso, essi riescono a conservare le loro conquiste e vi creano un regno stabile.
Così avviene per i franchi, che sono divisi in due principali gruppi: i Salii e i Ripari. Combattendo contro eserciti romani, ma anche arruolandosi come federati, alla fine, intorno alla metà del III secolo, riescono ad insediarsi sulle rive del Reno inferiore e, due secolo dopo, si uniscono sotto un capo comune, Clodione, e danno inizio ad un esaltante capitolo di storia, di cui ci occuperemo più avanti.
Così avviene per i visigoti, che dapprima si stabiliscono in Dacia, poi, attaccati dagli Unni, penetrano nell’impero romano, si scontrano con l’esercito dell’imperatore Valente e lo sconfiggono (378). Per quattro anni devastano la penisola balcanica, poi accettano di arruolarsi come federati al servizio dell’impero. Nel 410, guidati da Alarico, saccheggiano Roma, quindi passano in Gallia e in Spagna, dove si insediano (415). Verranno sconfitti prima dai Merovingi (507), poi, definitivamente, dagli Arabi (713).
Così avviene per i vandali, che per due anni devastano la Gallia prima di penetrare in Spagna (409). Dopo essere stati riconosciuti federati dall’impero romano (412), essi vengono attaccati dai Visigoti e si spostano a sud (428), dove fondano un regno barbarico, comprendente Corsica, Sardegna, Sicilia e Cartagine, che verrà abbattuto dai bizantini nel 534.
Così avviene per gli alamanni, che, vedendosi circondati da popolazioni temibili (a nord Frisoni, Sassoni e Longobardi, a est Burgundi e Vandali, a sud Marcomanni e Quadi, a ovest Roma), decidono di dirigersi dove la resistenza è minore, ossia a ovest, verso l’impero romano. Essi semplicemente cercano un nuovo territorio dove insediarsi, che offra sufficienti risorse e dove possano piantare le loro tende e vivere in sicurezza. Più volte si scontrano con gli eserciti romani, con alterne vicende. Infine si insediano in Alsazia, da dove vengono cacciati da Giuliano (357) e poi nella Svizzera orientale, dove verranno sconfitti da Clodoveo (496).
Così avviene per i burgundi, che, all’inizio del V secolo, costituiscono un regno sulla riva sinistra del Reno, con capitale Worms. Sconfitti dagli Unni (437), passano in Gallia, dove fondano un nuovo regno (443), che verrà conquistato dai franchi (534).
Così avviene per gli svevi, che, agli inizi del V secolo, riescono ad attraversare la Gallia e la penisola iberica, riuscendo infine ad insediarsi nel nord-ovest della stessa, pressappoco nell’attuale Galizia, dove fondano un regno, che sopravvivrà fino al 585.
Il primo capo barbaro in grado di costituire un regno duraturo in Italia è Odoacre (476-493), un ufficiale della guardia imperiale romana, che sa approfittare dell’estrema debolezza di Roma per convincere truppe barbariche di diversa origine, eruli, sciri, rugi e turcilingi, a mettersi ai suoi ordini, allo scopo dichiarato di impadronirsi dell’impero. Se mi seguirete, dice Odoacre agli altri capi barbari, io vi condurrò alla vittoria, dividerò con voi le terre conquistate e insieme terremo sottomesse le popolazioni indigene con la forza delle nostre armi e ci faremo servire da esse, così che potremo vivere da gran signori. Certo i timori non mancano e alcuni capi si chiedono se Odoacre sarebbe in grado di opporre una valida resistenza al prevedibile contrattacco da parte dell’imperatore d’Oriente, ma alla fine prevale la tentazione dell’obiettivo immediato e l’esercito barbarico si muove con entusiasmo al seguito di quell’audace, che, rispettando il programma, depone l’ultimo legittimo imperatore di Roma, Romolo Augustolo, e assume il controllo della penisola italica (476).
Avendo già militato per diversi anni come ufficiale nelle fila dell’esercito romano, Odoacre è sufficientemente intelligente per rendersi conto che non può conservare a lungo le sue conquiste solo con l’uso della forza e che la costituzione di un grande Stato comporta una serie di nuove esigenze, che necessitano di una solida organizzazione sociale, un valido apparato burocratico e un adeguato sistema giuridico, tutte cose che richiedono la conoscenza della scrittura e adeguate competenze, di cui i suoi uomini sono carenti. Perciò, invece di distribuire ai suoi generali tutte le terre conquistate, come aveva promesso, egli si limita ad espropriarne circa un terzo e lascia le altre alla cura dei vecchi proprietari, che però sono tenuti non solo a versare un tributo ai vincitori, ma anche a collaborare con loro assumendosi la funzione amministrativa. Dimostrando un acume politico sorprendente, Odoacre riesce, in questo modo, a superare il problema che ha di fronte, semplicemente mantenendo la struttura sociale esistente e servendosi degli stessi funzionari romani, mentre tiene per sé, in esclusiva, le funzioni militari e instaura una dittatura militare.
Non basta. Odoacre si preoccupa anche di legittimare la sua posizione, facendosi riconoscere dall’imperatore d’Oriente, e consolida i confini del suo regno, stringendo rapporti d’amicizia coi Visigoti. Le premesse per un governo stabile ci sono e, difatti, Odoacre può regnare per ben diciassette anni. Rimangono le profonde differenze culturali, di lingua e di tradizioni, che separano i due mondi, il romano e il barbarico, e li rendono sostanzialmente estranei. Di fatto, le due popolazioni rimangono culturalmente separate e legate fondamentalmente da rapporti di forza oltre che dalla comune fede in Cristo. In definitiva, la cultura romana viene preservata, non solo nei suoi aspetti laici e civili, ma anche in quelli religiosi, rimanendo il cristianesimo la fede dominante, sia pure nelle sue due varianti principali: il cristianesimo romano, che crede nella natura divina di Cristo, e quello ariano, che crede in un Dio unico. Nonostante la sua valida organizzazione, il regno di Odoacre, non dura a lungo. Esso però non crolla per incapacità di reggersi da solo, bensì per la maggiore forza di un altro capo barbaro, il goto Teodorico.
Preso atto della caduta di Roma, l’Impero d’Oriente deve badare a difendersi per non cadere a sua volta, e, pur di sopravvivere e liberarsi dalle orde di Teodorico (493-526), che stanno saccheggiando le sue terre, non esita ad offrire loro Roma, come merce di scambio. Sconfitto e ucciso il rivale, Teodorico si insedia sul suo trono e governa in modo non sostanzialmente diverso. Anch’egli trasferisce alla propria gente solo un terzo delle terre conquistate, quelle sottratte ai barbari di Odoacre, mentre lascia il resto ai romani, ai quali continua ad affidare l’amministrazione del regno, privandoli nel contempo del diritto di portare armi; anch’egli si preoccupa di rendere sicuri i confini del suo regno e, a tal fine, stabilisce rapporti distesi con i potenziali nemici, i Visigoti, i Burgundi, i Vandali e i franchi, con i quali stringe legami di amicizia sanciti da matrimoni politici. Mantiene anche la divisione tra barbari e romani, che è resa più netta dalla proibizione dei matrimoni misti e del passaggio dal cristianesimo ariano a quello romano, e viceversa.
Restano, dunque, le profonde differenze culturali fra le due popolazioni, e ciò crea qualche problema. In particolare, il diritto romano, che è fondato sui principi della famiglia, della stratificazione sociale e della proprietà privata, mal si adatta ai costumi barbari che, a loro volta, sono centrati sulla vita comunitaria ed egualitaria della tribù. Per risolvere questo problema, Teodorico si serve delle più eccelse menti del suo tempo, come Cassiodoro e Severino Boezio, cui affida il compito di avvicinare il diritto romano alle consuetudini delle popolazioni barbare e costituire una sintesi delle due culture in modo da renderne possibile un’armonica convivenza.
Da parte sua, Teodorico vuole presentarsi non come soggetto di rottura, ma come garante di continuità col passato e, animato da questo intento, stabilisce la propria residenza a Roma, proprio sul colle Palatino, nella stessa residenza dei Cesari, rispetta il seppur decaduto senato romano, s’impegna anche a riportare la città al suo originario splendore, restaurando i palazzi e le opere urbane di maggior pregio, e ripristina le antiche usanze imperiali, come quella di distribuire cibo al popolo e, cosa molto più importante per lui, quella di tramandare il potere di padre in figlio in successione dinastica. Analogamente a quanto erano soliti fare i Cesari, anche Teodorico, pur mostrando rispetto per la chiesa, si immischia nei suoi affari e riesce ad insediare sul trono pontificio un proprio candidato: Felice IV.
Felice IV (526-30) rivela buone qualità politiche e riesce a strappare ad Amalasunta, reggente del re Atalarico, un editto, che conferisce al papa il diritto di giudicare le contese che vedano implicato un religioso. È il primo passo verso il riconoscimento ai religiosi del privilegio di non dover rendere conto al tribunale secolare. Rimane il problema dell’elezione papale, che si presta alla simonia e al mercimonio. È lo stesso senato romano a denunciare di essere vittima di tentativi di corruzione da parte di prelati, che, si servono dei beni della chiesa per comprarsi il voto dei senatori più influenti.

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