giovedì 10 settembre 2009

22. Gli indiani

Tramontata l’epoca dei Gupta, che rappresenta l’età aurea della civiltà indiana, si apre un periodo di lotte intestine che è segnato dall’affermazione di signori locali e dal frazionamento feudale del paese, così che l’India si trova ad essere suddivisa in un gran numero di regni.

21. I giapponesi

La seconda metà del primo millennio è caratterizzata in Giappone dal rafforzamento dell’influenza cinese e dal consolidamento del buddismo. Dalla Cina viene importato un ordinamento politico piramidale-gerarchico di tipo feudale, che culmina nella figura dell’imperatore.
Il periodo che va dalla fine dell’VIII secolo a metà del XII secolo, chiamato Heian, è caratterizzato da una società di tipo aristocratico-feudale, rigidamente gerarchizzata e chiusa in se stessa, dove quello che conta sopra ogni altra cosa non sono le qualità personali, bensì il rango di nascita (Morris 1984: 93ss).

20. I cinesi

Nel 581, Yang Jian fonda la dinastia Sui (581-618) e, sostenuto dall’aristocrazia sino-barbarica del Nord-Ovest, riesca e riunificare l’impero (589). Si apre così un periodo di prosperità e di potenza per il paese, che si consolida sotto la dinastia turca Tang (618-907), una delle più notevoli della storia cinese. Sotto i Tang la Cina è la massima potenza asiatica ed è anche un paese eccezionalmente aperto sia nei commerci che nella cultura. È in questo periodo che penetrano nel paese il manicheismo, il cristianesimo nestoriano e forse anche l’ebraismo, mentre il buddhismo raggiunge la sua massima espansione. I Tang introducono il reclutamento di funzionari attraverso esami aperti a tutti gli uomini liberi, sottraendolo all’esclusivismo aristocratico. Si viene così a formare una classe burocratica basata sul merito oltre che sulla nascita. La corte imperiale diviene un cenacolo per poeti e artisti. Viene inventata la stampa e la polvere da sparo, che comincia ad essere usata per motivi militari.
La dinastia Tang deve però subire gli attacchi di molte popolazioni vicine e la ribellione di propri vassalli, e alla fine cade. Per mezzo secolo, l’impero rimane diviso in Dieci Stati (907-960), che sono in continua lotta fra loro, fino a quando il generale Taizu riesce a fondare la dinastia Song (960-1279).

19. Gli americani

Sulle popolazioni che popolano il Continente americano nella seconda metà del primo millennio le nostre conoscenze sono assai scarse. Sappiamo che il Nord è abitato da tribù nomadi, mentre al Centro e al Sud si affermano diverse popolazioni stanziali (Olmechi, Zapotechi, Quimbaya, Chimù, Toltechi, Quechua), che sviluppano culture evolute e vivono organizzate in città-stato rette da governi rigidamente teocratici, spesso in lotta fra loro.

18. I russi

La Russia è un crocevia di popolazioni provenienti in parte dall’Asia, in parte dall’Europa (Avari, Khasari, Slavi, Finnici, Vareghi, ecc.), che formano regni a forte componente tribale. Spinti da difficoltà di vario genere (carenze di risorse, crescita demografica, lotte intestine, minacce esterne) queste tribù non esitano a raccogliersi sotto un capo e a muoversi in cerca di nuovi spazi e nuove risorse, fino a costituire i due importanti principati di Novgorod (860) e di Kiev (882).
Benché più volte i sovrani di Kiev riescano a rendersi minacciosi nei confronti di Bisanzio, mostrandosi almeno pari sul piano militare, non si può dire altrettanto sul piano culturale, dove la superiorità dell’impero è netta.

17. I turchi-ottomani

Intanto, nel Turkestan, alcune tribù si uniscono in una grande confederazione (VI secolo) e iniziano una politica di conquista, che li porterà, qualche secolo dopo, alla creazione di un impero non meno grande di quello arabo, l’impero turco-ottomano. Venute a contatto con il cristianesimo bizantino e la cultura araba, la maggior parte di loro abbraccerà la fede islamica e contribuirà a diffonderla.

16. Gli arabi

Fino al VI secolo, l’Arabia svolge un ruolo marginale nel panorama politico mondiale. Essa è abitata da popolazioni tribali, alcune delle quali vivono in modo sedentario in prossimità delle oasi o nelle città, altre sono nomadi. Ciascuna venera proprie divinità e pratica il politeismo, anche se è esposta all’influenza dal cristianesimo e dell’ebraismo. In generale, le tribù vivono separate e sono gelose della propria autonomia, ma ci sono delle eccezioni. Si racconta, per esempio, di un abile condottiero, di nome Qusay, che è riuscito ad unire diverse tribù e a fondare La Mecca, intorno al 440. Nel VI-VII secolo, molti arabi sono arruolati, come soldati mercenari, negli eserciti persiano-bizantini, che si combattono. Lungo le vie percorse dai soldati si muovono anche le carovane dei mercanti arabi, che scambiano i loro prodotti con i persiani, coi bizantini e con altri paesi vicini. Uno di questi mercanti è Maometto. L’Arabia irrompe nella storia nel VII secolo, proprio con Maometto, mentre la penisola Arabica è ancora abitata da tribù nomadi e La Mecca costituisce un centro particolarmente importante, sia dal punto di vista commerciale, sia come sede di pellegrinaggio.
Maometto nasce proprio alla Mecca intorno al 570 da famiglia benestante. A cinque anni perde il padre, l’anno dopo la madre e il nonno, perciò viene accolto dallo zio Abu Talib, uomo molto influente e potente. Passa la giovinezza guidando carovane. All’età di 25 anni si sposa con una ricca donna, di nome Cadigia, e ne assume l’attività commerciale. Da quel matrimonio nascono sei figli, di cui sopravvivrà solo Fatima, la “molto amata”. Avvezzo alle introspezioni, Maometto si ritira spesso a meditare, finché un giorno gli appare in visione l’arcangelo Gabriele, che, in una sola notte, gli rivela, nella sua interezza, quello che sarà il contenuto del Corano e lo nomina “Inviato di Dio”. Racconta la sua esperienza ad amici e conoscenti, ma pochi sono disposti a credergli. Fra questi vanno ricordati la moglie e lo zio, che gli saranno di grande aiuto, sostenendolo nei momenti di difficoltà. Qualche anno dopo la visione, intorno al 613, Maometto inizia ad annunciare quanto Dio gli ha rivelato, e cioè che c’è un solo Dio, Allah, e una sola religione, l’Islam, che Allah ama tutti, compresi i deboli e gli umili, e vuole il trionfo dell’Islam, che premia coloro che lo pregano e praticano l’elemosina, mentre minaccia terribili castighi a quanti si preoccupano soltanto dei loro beni terreni.
Inizialmente la predicazione di Maometto non incontra particolari ostacoli e può conquistare i primi seguaci, che sono proprio i membri delle classi più povere, ma quando il fenomeno si allarga e raggiunge la cerchia degli aristocratici, cominciano le prime difficoltà. La maggior parte degli aristocratici, infatti, lo crede pazzo e visionario e si burla di lui. I mercanti, temendo che il rifiuto delle altre divinità finisca col rappresentare un duro colpo per il commercio, lo contrastano e lo perseguitano. Nel 619 muoiono la moglie e lo zio, lasciando un vuoto incolmabile. Da quel momento il legame con la famiglia è spezzato e Maometto può contare solo su se stesso. Cerca allora di stringere nuove alleanze con le popolazioni vicine, finché non gli riesce di convertire alcuni abitanti di Yatrib (la futura Medina), venuti alla Mecca in pellegrinaggio (620). Nel 622 Maometto e i suoi seguaci sono costretti a fuggire (egira) dalla città natale e si rifugiano proprio a Medina, dove trovano un ambiente alquanto favorevole. I musulmani fanno iniziare la storia del proprio Stato proprio in quest’anno, che segna anche l’inizio della vita politica di Maometto, ma anche la sublimazione del dolore per la perdita dei propri cari, che lascia il posto ad una rielaborazione in positivo del distacco.
Medina è composta da tanti clan rivali (alcuni, quelli dominanti, arabi, altri ebrei) e non ha buoni rapporti con i meccani. Maometto riesce ad unire alcuni clan, che impegna in numerose piccole azioni militari di successo. Il consenso intorno alla sua persona va crescendo, finché diviene “la guida indiscussa di Medina” (CRESPI 2003: 102). Allah vuole il trionfo dell’Islam, ripete, e sconfiggerà i suoi nemici. Richiamati da questo irresistibile messaggio, sempre più seguaci accorrono al seguito del profeta e pendono dalle sue labbra: la fede in Allah ha unito membri provenienti da diversi gruppi clanici e tribali e costituito un nuovo popolo, che adesso è legato non solo da vincoli di sangue, ma anche e soprattutto da vincoli culturali, di natura religiosa. La svolta è radicale e offre possibilità di cooperazione potenzialmente illimitate. Chiunque, infatti, da qualsiasi famiglia e luogo provenga, può, accettando la fede in Allah, far parte dell’Islam. Da questo momento, “non sono i legami di sangue che contano, ma i patti di alleanza, un’alleanza fondata su un ideale comune. Alla tribù succede la comunità, la umma” (DELCAMBRE 1993: 58).
A Medina, Maometto e i suoi seguaci possono inizialmente contare sull’ospitalità dei medinesi, ma ben presto devono provvedere da soli a se stessi, e lo fanno ricorrendo a quel mezzo di sussistenza estremo, del tutto legittimo fra i beduini, che è la razzia. Così Maometto inizia ad assaltare e depredare le carovane meccane. I meccani rispondono e ne nasce un conflitto armato, nel corso del quale i musulmani di Maometto si vanno convincendo di combattere una guerra santa contro gli infedeli. I caduti in battaglia vengono ricordati come martiri e ciò fa crescere il fervore religioso tra i musulmani. Nello stesso tempo, si va sviluppando un forte attrito tra musulmani ed ebrei. Dichiarati colpevoli di aver parteggiato per il nemico, mille ebrei vengono decapitati (627).
Ormai per il musulmani è il trionfo e Medina non è più una semplice confederazione di tribù, ma “è divenuta un autentico stato teocratico” (DELCAMBRE 1993: 102). Nel 630, Maometto può ritornare alla Mecca da trionfatore, ma due anni dopo muore senza lasciare alcuno scritto, né alcuna disposizione ai suoi seguaci, né figli maschi, e ciò contribuisce a creare dei disordini per la successione. Molti capi locali iniziano a combattersi per contendersi la successione, finché il suocero del profeta, Abu Bakr (632-4), riesce a convincere i contendenti a volgere le loro armi contro i vicini imperi persiano e bizantino, da cui avrebbero tratto abbondante bottino. Inizia così una folgorante stagione di conquiste.
Il primo grande condottiero arabo, Omar (634-44), dà inizio ad una rapida espansione, conquistando la Palestina (636), l’Egitto e parte della Persia (642). Sotto il califfato di Othman (644-56) si completa la conquista della Persia (651) e viene composto il Corano che, secondo i musulmani, è la parola di Allah, che è stata rivelata dall’arcangelo Gabriele a Maometto. Da quel momento il musulmano (muslin) è colui che si sottomette e obbedisce alla parola del Profeta. Alì (656-61) conclude la lista dei quattro califfi ortodossi o “ben guidati”. Gli succede il rivale Moawija (661-80), che fonda la dinastia degli Omayyadi, i quali ampliano ancora l’impero conquistando il Magreb, la Spagna, il Baluchistan, il Sindh e la Transoxiana e raggiungono l’apice della potenza sotto al-Walid (705-15). Falliscono invece il tentativo di espugnare Costantinopoli (717) e di espandersi in Francia (732). Nel 750 la dinastia degli Omayyadi viene massacrata e deve cedere il posto a quella degli Abbasidi, che regnerà per cinque secoli, avendo per capitale Baghdad, e sotto di essa la civiltà araba raggiunge il suo apogeo.
Per l’Islam non esistono distinzioni etniche poiché tutti gli uomini sono considerati figli dell’unico Dio, che ha nel califfo il suo rappresentante terreno. In teoria, nessuno è obbligato a convertirsi all’Islam ma, il fatto che agli infedeli viene imposta una specifica tassa, o testatico, contribuisce a far sì che le popolazioni sottomesse si convertano in massa spontaneamente. Dopo la conquista di Cipro, Creta e Sicilia (IX secolo), i “saraceni” percorrono in lungo e in largo il Mediterraneo, sbarcano nelle coste di Africa, Italia e Francia e seminano il terrore nelle popolazioni, uccidono e fanno razzia di ogni bene, portano via dei prigionieri, che poi vendono come schiavi.

16.1. Religione islamica ed espansione militare
Ultima a nascere fra le grandi religioni universali, l’Islam è sostanzialmente fondata, oltre che sul Corano, anche sulla Tradizione, ossia sull’insieme di detti e atti attribuiti al Profeta, come pure il diritto, la legge e l’ordinamento politico dei paesi islamici, il cui governo assume le sembianze di una teocrazia. A queste condizioni, non desta meraviglia il fatto che la religione islamica predichi l’obbedienza alle autorità costituite, rivelandosi funzionale al potere politico. “L’Islam è [anche] una religione pratica, chiara, non ha mai indicato un obiettivo difficile da raggiungere, manca di misteri e di questioni teologiche” (ABDALLAH, SORGO 2001: 125). Nella pratica, l’Islam chiama i fedeli a rispettare i seguenti cinque pilastri della fede: credere nell’unico Dio, pregare, fare l’elemosina, digiunare nel mese del Ramadan, fare un pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita. A suo fondamento c’è il bisogno di abbandonarsi al volere di Dio e di accettare tutto ciò che proviene dalla sua imperscrutabile volontà.
I primi successori di Maometto sono chiamati califfi, che vuol dire “vicari”, coloro che governano al posto del Profeta. Essi vengono eletti dall’aristocrazia meccana e il loro ruolo esclusivo è quello di rispettare e fare rispettare la Legge rivelata, successivamente, a partire dalla dinastia Ommayade (661-750), è il califfo in carica che nomina il proprio successore, e, infine, con l’avvento al potere degli Ottomani, si passa alla discendenza di sangue. Si deve al califfato se le tribù arabe possono mantenersi uniti nella nuova religione e rendere possibile una politica di espansione, che, certamente, è anche favorita dalle condizioni di “debolezza interna degli imperi bizantino e sasanide, sfiniti da anni di guerre intestine, unita al grave malcontento delle popolazioni, che si rifiutavano di appoggiare i governanti contro l’invasore” (GUARDI 1997: 70).
Dopo la caduta dell’impero romano, quella araba s’impone come la principale civiltà emergente. Gli Arabi non sanno essere creativi al pari dei Greci, ma hanno un più spiccato senso pratico e si rivelano eccellenti opportunisti, riuscendo ad individuare e ad utilizzare quanto di buono esprimono le culture con le quali sono venuti a contatto. Per esempio, per quanto riguarda i numeri, essi preferiscono le cifre in uso presso gli indiani, mentre rigettano la consuetudine di indicare i numeri con le lettere dell’alfabeto in voga presso i greci e i romani. Purtroppo, anche presso gli arabi ben presto prevale lo spirito religioso e la verità veene fatta coincidere con quanto è scritto nel Corano.

15. Il Feudalesimo

Si chiama feudalesimo il regnime socio-politico che prevale in Europa fra il IX e il XIII secolo e che è caratterizzato dalla quasi scomparsa del grande commercio marittimo e dal predominio assoluto della proprietà terriera. Dopo lo sfaldamento dell’impero carolingio, l’Europa occidentale è flagellata dalle incursioni di ungari, normanni e saraceni, che possono approfittare della debolezza dei poteri centrali. Non potendo contare su un’adeguata protezione da parte del sovrano, ogni popolazione locale deve provvedere da sé alla propria sicurezza. A tal fine, essa si sottomette ad un signore, che di solito è a capo di una banda armata, al quale affida l’organizzazione del territorio e la sua difesa. Assunto un ampio potere, il signore dà in affitto appezzamenti di terreno alle famiglie di coloni, ricevendone in cambio una parte del raccolto e corvées. La minaccia di un nemico esterno o la prospettiva di una conquista possono indurre diversi signori ad unirsi sotto un capo di livello superiore, in cambio di vantaggio di vario tipo: bottini, terre, privilegi. Carlo Martello concede ai suoi guerrieri terre in usufrutto. Quelle terre passano poi da padre in figlio e diventano un bene ereditario, che lega la famiglia beneficiaria a re con un rapporto di vassallaggio, che è sancito da un giuramento.
Entro il suo feudo, ogni vassallo è padrone assoluto, mentre il tipo di rapporto che si stabilisce col re dipende dalla forza delle parti. Quando un re è debole i vassalli tendono a rendersi indipendenti e, quando un re è forte, i vassalli tendono ad indebolirlo per guadagnare la propria indipendenza. Viceversa, quando un vassallo è forte, il re tende ad indebolirlo per poterlo agevolmente controllare, ma non così tanto da non sapersene che fare. L’ideale per un re è quello di essere circondato da vassalli forti e fedeli, ma non tanto forti da poterlo insidiare. Da questo gioco di opposti interessi emerge la moltitudine di piccoli Stati semindipendenti, che hanno il loro simbolo nel castello. Di fronte alle incursioni, il signore del castello si rivela più efficace e risponde meglio del re al bisogno di sicurezza della gente. Quasi tutti allora ricercano il legame vassallatico e le terre di contadini liberi, i cosiddetti allodi, si fanno sempre più rare. Insomma, come osserva Le Goff, “la feudalità nasce per rispondere a un vuoto di potere” (2003: 118).

14. L’Europa nell’alto medioevo

Per tutto l’alto medioevo l’Europa rimane un continente scarsamente popolato e, per di più, caratterizzato da un elevato tasso di mortalità e una durata media della vita che non supera i trent’anni. Solo lentamente la popolazione passa dai circa 27 milioni del Seicento al circa 42 milioni intorno al Mille.
La società altomedievale è nettamente duale e gerarchizzata, potendovisi distinguere, in modo molto evidente, una classe signorile, costituita dalle famiglie dei feudatari, e le masse contadine, che vengono considerate come una popolazione di livello inferiore. Il contadino ha pochi diritti ed è trattato come uno schiavo da sfruttare, un semplice servo della gleba. La sua condizione viene giustificata dalla religione e ritenuta inevitabile in quanto conseguenza del peccato originale, e perciò la chiesa si limiterà ad alleggerirne gli effetti, piuttosto che tentarne una estirpazione.
Volendo evitare di frammentare il proprio patrimonio territoriale, i signori tendono ad escludere dall’eredità i figli cadetti, i quali, non rassegnandosi e animati da un’avidità insoddisfatta, cercano di costruirsi da sé una posizione adeguata al proprio rango, dedicandosi alla ricerca di facili guadagni e servendosi della forza allo scopo di realizzare imprese di ogni tipo (razzie, complotti, colpi di mano), oppure mettendosi al servizio di qualche grande signore, che in quel momento è impegnato in una guerra per il potere, nella speranza di conquistare bottino e terre. I figli cadetti delle grandi famiglie costituiscono autentiche mine vaganti.
Al di sopra di tutti si ergono due figure imponenti, quelle del papa e dell’imperatore, che sono accomunate dall’idea di dominio universale. Se l’imperatore è il detentore del potere politico e militare, il papa detta legge in campo etico e culturale e imprime alla società altomedievale il suo carattere confessionale. L’uno non può fare a meno dell’altro, perché, se è vero che il papa ha bisogno delle armi dell’imperatore, è anche vero che l’imperatore rischierebbe di non essere riconosciuto tale senza la legittimazione papale.
Nei regni barbarici, che si formano dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, la lingua latina si volgarizza dando luogo a nuove lingue locali, dette romanze o neolatine, che vengono parlate dalle masse, mentre il latino classico rimane in uso all’interno delle classi sociali superiori, vale a dire nelle sedi vescovili e nei palazzi dei feudatari.

13. I russi

Fino al VIII secolo la steppa della futura Russia è abitata da popolazioni tribali slave, che sono accomunate dalla lingua. Esse non conoscono la proprietà privata, né la gerarchia sociale e vivono in modo egalitario. Tendono a spostarsi verso le più fertili terre del sud, che sono però anche contese da altre popolazioni: Scìti, Sàrmati, Unni, Avari e Càzari. Nella seconda metà del IX secolo, dalla Svezia scendono i varèghi, un ramo vichingo, che si integra con le popolazioni locali e le induce ad organizzarsi e a darsi una parvenza di Stato, con tanto di proprietà privata e struttura piramidale della società, anche se rimarranno a lungo certe istituzioni di tipo “democratico”, come l’assemblea popolare, che è dotata di grande potere e che può essere convocata anche da un solo cittadino, che suoni la grande campana collocata nella piazza maggiore della città.
Il massimo centro “civilizzatore”, quello che maggiormente fa sentire il suo influsso sulle popolazioni russe, è certamente l’Impero bizantino, che prova ad esportare la propria cultura, anche religiosa, in Russia. E sono proprio due fratelli bizantini, Cirillo e Metodio, ad impegnarsi nella cristianizzazione delle popolazioni barbare del nord (IX secolo) e a passare alla storia come gli “apostoli degli Slavi”.

12. Gli inglesi

Allo scopo di rafforzare le difese sul Continente dalle invasioni dei barbari, i romani ritirano le legioni dall’Inghilterra (411) e abbandonano quel paese al proprio destino. Agli inizi del V secolo, le popolazioni autoctone dell’isola, i britanni, devono subire gli attacchi di tribù germaniche, Angli e Sassoni, alle quali lasciano il controllo di una gran parte del territorio. A loro volta gli anglosassoni dovranno cedere alle forze d’invasione normanne.

11. I normanni

Tra il IX-X secolo, spinti dall’incremento demografico e dall’elevata competizione intertribale, piccoli e numerosi eserciti di vichinghi, molto abili nell’arte della navigazione e del combattimento, abbandonano in massa le loro terre e, dalla Danimarca, dalla Svezia e dalla Norvegia, dove risiedono, si muovono alla ricerca di nuovi spazi, allo scopo, non solo e non tanto di praticare azioni di pirateria o saccheggio, quanto piuttosto di creare degli insediamenti stabili. Queste agguerrite tribù sciamano praticamente in tutta Europa, insediandosi in Inghilterra, in Irlanda, in Sicilia e colonizzando anche l’Islanda e la Groenlandia, che fino allora erano terre disabitate. Raggiungono anche l’estremo oriente europeo, dove contribuiscono, integrandosi con le popolazioni locali, a fondare il principato di Novgorod e di Kiev. Dove arrivano, i cavalieri normanni tendono a stabilirsi in modo stabile e costruiscono dei castelli, grazie ai quali controllano un’area avente un raggio di circa 15 Km, tanti quanti ne può percorrere un cavallo in un giorno, e si organizzano gerarchicamente alla maniera feudale. All’interno del proprio feudo ogni signore è sovrano: egli nomina vescovi e vassalli, così come li depone.
In una Francia dilaniata dalle interminabili dispute ereditarie seguite alla morte di Lodovido il Pio (840), essi giungono al seguito di Rollone, uno dei tanti capiclan, forse di origine danese, e si danno a continui saccheggi nella valle della Senna, finché il re dei franchi, Carlo il Semplice, non trova il modo per fermarli, almeno per un po’, riconoscendo l’autorità di Rollone e concedendogli il ducato di Normandia (911). Emulo di Clodoveo, Rollone accetta il battesimo e diviene paladino del cattolicesimo. Da predone a duca, da pirata a nobile signore: ecco la mirabile parabola di Rollone, un avventuriero di umili origini, determinato e opportunista, abile e fortunato, che riesce nell’impresa di fondare una delle dinastie più illustri di tutti i tempi, ben presto decantata dagli storici, che non esitano ad attribuire a Rollone origini preclare, che risalirebbero niente meno che agli antichi Troiani. Tutto ciò però non basta ai normanni , i quali, con il figlio di Rollone, Gugliemo Lungaspada, continuano a premere contro il regno dei franchi, ottenendo altre concessioni (nel 924 2 nel 933) e facendo della Normandia la maggior potenza dell’intero territorio francese. Nel X secolo, i normanni costituiscono una forza politica di primo piano, che brillerà nel panorama internazionale europeo fino al XII secolo.
La conquista della Sicilia avviene in modo frammentario, grazie all’iniziativa di singoli cavalieri, di solito giovani cadetti di nobili famiglie che, non trovando adeguato spazio a casa loro, escono dalla Normandia in cerca di fortuna e, dopo aver respinto arabi, longobardi e bizantini, riescono a creare feudi e principati, finché, intorno alla fine dell’XI secolo, assumono il controllo dell’intera Italia meridionale. Le conquiste non placano il desiderio di ricchezza e di gloria, che spinge molti giovani rampolli, i cosiddetti “cavalieri senza terra”, a rivolgere le loro attenzioni in direzione della Terra Santa, dove, anche se non dovessero riscuotere successo materiale, potrebbero almeno guadagnare il Paradiso. I normanni si proclamano strenui difensori della chiesa romana e si comportano di conseguenza. Essi non solo combattono contro i nemici della vera fede e si rendono responsabili dell’idea di «guerra santa», che è alla base delle crociate, ma sostengono anche il papato nella sua lotta contro l’impero per il conseguimento del potere universale, oltre che nella sua pretesa di ampliamento del potere temporale, come voleva la “Donazione di Costantino”. La creazione del mito sulle origini normanne si deve a un certo Dudone, uno dei più importanti cappellani del duca Riccardo II di Sicilia, che, su incarico del suo signore (1025), scrive la storia della Normandia, che prende il via proprio con Rollone, descritto come un nobile guerriero danese scacciato dalla sua terra da un malvagio re. Non può esserci un inizio più emotivo e coinvolgente. E così, il mito dei normanni fa il suo ingresso nella storia.

11.1. Da pirati a re
Sospinti da una qualche ragione (attacco di nemici, pressione demografica, crisi di risorse, desiderio di star meglio), interi clan lasciano le loro terre portando con sé le poche cose che possiedono e vanno in cerca di fortuna. L’obiettivo minimo è quello di sfamarsi, quallo massimo di conquistare un ricco territorio dove poter vivere in pace. Alcuni propongono scambi di beni e rapporti pacifici, altri puntano direttamente su azioni di forza. Sono Ungari e Normanni. Hanno poco da perdere e molto da guadagnare. Assaltano i paesi cristiani da ogni lato, arraffano tutto ciò che possono e si allontanano alla ricerca di nuovi luoghi da depredare. Dove trovano minor resistenza si accampano e, se sono sufficientemente numerosi, tentano l’azione di conquista. Alcuni sovrani cristiani, non riuscendo a cacciarli, scendono a patti coi loro capi e li invitano a desistere dalle incursioni in cambio di un territorio e di un tributo annuo. Nascono così il regno di Ungheria e il ducato di Normandia, dalla forza di questi pirati, che ora diventano re.

10. Gli ungari

Popolazioni asiatiche seminomadi e abilissimi cavalieri, gli ungari (o magiari) provengono dalla regione meridionale degli Urali, da dove sono fuggiti perché pressati dai Peceneghi e hanno invaso la pianura danubiana. Essi si pongono all’attenzione degli europei nella prima metà del X secolo per vie delle loro temutissime incursioni, che raggiungono l’Italia e la Francia. Dopo la pesante sconfitta subita ad opera di Ottone I (955), si insediano definitamene in Pannonia, dove fondano il regno di Ungheria, il cui primo sovrano, Stefano (997-1038), si fa promotore della cristianizzazione di quel popolo.

09. Gli italici

Tramontato l’impero carolingio e mentre gli arabi conquistano Sicilia, Sardegna e Corsica e insidiano la Penisola, si apre in Italia un periodo di aspra competizione per il titolo di re, cui partecipano Berengario del Friuli, Guido e Lamberto di Spoleto, Berengario di Ivrea e Ugo di Provenza, e che si conclude nel 951, quando Ottone scende in Italia e si fa incoronare re d’Italia a Pavia. A Roma Ottone tenta di mettere ordine nella disordinata politica che ruota intono alla figura del papa, anche se la sua autorità, come quella dei suoi successori, viene esercitata in modo discontinuo e non saldamente.

08. I germani

Al declino dell’impero franco corrisponde l’ascesa della Germania, che è suddivisa in sei principali regioni: Baviera, Franconia, Lorena, Sassonia, Svevia e Turingia. Estintasi la dinastia carolingia (911), Corrado I, duca di Franconia, viene eletto re di Germania (911-8), ma deve guerreggiare con i duchi di Sassonia e di Baviera, che rifiutano di riconoscerlo. Gli succede il duca di Sassonia, Enrico I l’Uccellatore (919-36) che, dopo essersi imposto sugli altri duchi tedeschi e aver fermato gli Ungari, dà inizio ad una nuova dinastia.
A succedergli è il figlio Ottone I (936-73), che, volendo ricollegarsi alla tradizione carolingia, comincia a rivolgere la sua attenzione all’Italia, appoggiandosi al papa e intraprendendo una politica centralistica, alla quale si oppongono alcuni duchi. Ottone muove loro guerra e, dopo averli piegati, affida l’amministrazione dei feudi a persone di propria fiducia, che sono parenti oppure vescovi ed abati. L’attribuzione dei feudi ad ecclesiastici, ai quali l’obbligo del celibato impedisce di avere eredi cui trasmettere i propri possedimenti, costituisce un mezzo per rafforzare il potere dell’imperatore, che, tra l’altro, assume così le prerogative di capo della chiesa tedesca. Nel 955 riporta una decisiva vittoria sugli Ungari, e ciò, oltre a conferirgli la fama di difensore della cristianità, gli spiana la strada per la fondazione di un nuovo impero. È papa Giovanni XII (955-64) che lo incorona a Roma imperatore del Sacro Romano Impero (962). Da questo momento, la Sassonia eredita il primato che è stato dalla Francia dei carolingi.
Il rafforzamento del potere imperiale che consegue all’ascesa di Ottone si accompagna ad una perdita di autonomia decisionale delle nobili famiglie romane, che devono nuovamente subire l’ingerenza dell’imperatore nei loro affari, ivi compresa l’elezione del papa. La prima conseguenza del nuovo corso è che, a causa della sua condotta indegna, Giovanni XII viene deposto e, questa volta, è Ottone che sceglie il successore sulla base delle qualità morali. La scelta cade su un laico, al quale vengono somministrati in modo sommario i vari ordini (ostiario, lettore, accolito, suddiacono, diacono e prete) necessari per poter essere consacrato papa: sarà chiamato Leone VIII (963-5). Il caso è estremo e, tuttavia, la volontà di Ottone è chiara e ferma: il Privilegium Othonis (962) stabilisce che ogni pontefice deve prestare giuramento all’imperatore prima della sua consacrazione. Da questo momento, non solo l’elezione, ma anche la stessa condotta del papa, sono poste sotto il controllo dell’imperatore. I romani non ci stanno ed eleggono, nella maniera consueta, un “loro” papa, Benedetto V (964-5), che viene consacrato nonostante il parere contrario dell’imperatore. Ottone interviene con l’esercito e manda Benedetto in esilio ad Amburgo, dove muore.
Per alcuni anni l’impero rimane nelle mani dei duchi di Sassonia, passando prima al figlio di Ottone I, Ottone II (973-83), e poi al figlio di questi, Ottone III (983-1002). Ottone II viene incoronato imperatore nel 967, mentre è ancora in vita il padre, in un periodo in cui la città è dilaniata dalle lotte fra nobili famiglie, che si contendono il potere e impongono i loro papi. Al centro dei suoi pensieri c’è ancora l’Italia, ed è nel Sud dell’Italia, mentre cerca di conquistare i territori bizantini, che viene sconfitto dai saraceni (982), con grave pregiudizio per l’impero. Poi c’è Roma. Di norma, il papa è eletto dal popolo, che è rappresentato dal senato e dal clero, ma spesso la scelta del candidato scatena lotte fra le famiglie più potenti e genera scompiglio fra la popolazione.
Non riuscendo a controllare una di queste crisi, papa Giovanni XV si rivolge ad Ottone III, che interviene (996). Mentre è in viaggio verso Roma, gli giunge la notizia che il papa è morto, che il popolo romano ha acclamato Giovanni XVI, che la nobiltà romana è in subbuglio e chiede che sia lui stesso a designare il nuovo papa. Il fatto rappresenta un’autentica novità. Infatti, è la prima volta che viene offerta all’imperatore la facoltà di designare il papa. La scelta cade su un giovane sacerdote tedesco, che prende il nome di Gregorio V. Il nuovo papa incorona Ottone III, il quale si insedia sull’Aventino, come gli antichi imperatori, ma non è amato dai romani, che gli si rivolgono contro e lo costringono a fuggire. Dopo Ottone III i duchi di Sassonia non riescono a mantenere il potere, che passa nelle mani della Baviera. In questo periodo, i rapporti fra impero e papato si svolgono in un’altalena di equilibri fra le diverse personalità dei papi e degli imperatori, che vedono il prevalere ora dell’uno ora dell’altro.

07. I franchi

I futuri franchi irrompono nella storia nella metà del V secolo, quando, prima Clodione e poi il successore Meroveo (fondatore della dinastia merovingia) riescono ad unire intorno a sé un certo numero di capiclan, in un momento di grande fermento e accesa competizione fra le popolazioni barbare, che si trovano insediate in Gallia (Visigoti e Burgundi a sud, franchi e Alemanni a nord), mentre l’impero romano sta crollando. In qualità di fedeli federati di Roma, i re merovingi combattono a fianco dei romani contro altre popolazioni barbariche, ricevendo in cambio terre e potere. Alla fine, lo Stato merovingio assume i connotati di un’aristocrazia militare fondata sulla guerra, dove il “potere è interamente accaparrato da un piccolo numero di grandi proprietari” (PERROY 1955: 113).
La guerra “è in realtà una razzia, e il bottino e le terre conquistate forniscono al sovrano sempre nuovi mezzi per ricompensare coloro che lo servono bene e per guadagnare l’amicizia degli altri” (PERROY 1955: 114). Si costituisce così una “piccola casta di proprietari fondiari” (PERROY 1955: 20), che sono liberi di condursi come meglio credono, naturalmente dopo che sono fatti salvi gli obblighi nei confronti del re. Ogni tentativo di ribellione è represso brutalmente e su tutto domina la forza delle armi. Gli interessi culturali decadono e ognuno tende a farsi giustizia da sé. Il regresso della civiltà è evidente.
La potenza merovingia raggiunge l’apogeo sotto il figlio di Childerico, Clodoveo (481-511), il quale, abbandonata la politica del padre, punta ad eliminare senza tanti complimenti ogni possibile rivale ed alla conquista di nuovi territori, che diventano proprietà privata del condottiero e dei suoi amici. Divenuto capo incontrastato dei franchi salii, Clodoveo si trova a competere con Sigiberto lo Zoppo, re dei franchi ripuari, il suo più temibile antagonista, e con altri capi di tribù minori, ed ha la meglio su tutti. Le sue doti migliori sono la ferma volontà di dominio, l’astuzia e la spietatezza. Clodoveo stabilisce subito buoni rapporti con i vescovi locali, che in generale sono personaggi di estrazione senatoriale assai influenti e ben organizzati, anche militarmente, e si fa battezzare, insieme a migliaia di suoi soldati, divenendo così, agli occhi dei cattolici, un “nuovo Costantino”, unico re barbaro legittimo, il vero erede del potere romano in Gallia. La religione fornisce a Clodoveo una struttura culturale ed etica, di cui il regno merovingio è carente, oltre che uno strumento di dominio, di cui il re si serve per sottomettere i Visigoti e gli Alemanni e impadronirsi di buona parte della Gallia.
Sulle ali del successo, Clodoveo continua a giocare le sue carte con inflessibile determinazione. Dapprima convince Cloderico, figlio di Sigiberto, ad uccidere il padre, quindi mette a morte il giovane con lo scopo dichiarato di punire il suo gesto e, quasi senza colpo ferire, estende in tal modo la sua sovranità sui franchi ripuari, sostenuto da un’opinione pubblica abilmente sensibilizzata sull’opportunità di imporre il cristianesimo a popolazioni pagane e di realizzare una pace cristiana. Reso più forte dalla nuova condizione, non ha difficoltà a sbarazzarsi degli altri concorrenti minori, sì da estendere il suo dominio a tutta la Gallia, con l’eccezione della Settimiana, della Burgundia e della Provenza. Alla fine, Clodoveo appare il paladino del cattolicesimo e, come tale, si contrappone a tutti gli altri re barbari ariani. Sono così create le premesse per un successivo scontro ideologico, che si verificherà puntualmente negli anni a venire e si rivelerà vantaggioso per i discendenti di Clodoveo, che, allo scopo di legittimare la propria posizione, mettono in circolazione la voce, secondo cui i franchi discendono dagli antichi Troiani e sono eletti da Dio per difendere la sua Chiesa e per dominare il mondo. Ecco come nasce e si consolida la nobile dinastia merovingia, che è legittimata dall’imperatore, il quale assegna a Clodoveo i titoli di console e patrizio.
Prima la conquista, poi la legittimazione, infine il diritto, che ha lo scopo di rendere stabili i rapporti di forza. Clodoveo, dunque, organizza il regno e lo dota di un apparato amministrativo e di leggi scritte, la cosiddetta Lex Salica, che delinea una società piramidale: al vertice c’è il re, considerato il padrone di tutte le terre conquistate, insieme agli uomini della sua corte, che costituiscono il centro del potere politico, seguono i franchi, cui è riconosciuto uno status superiore, infine i sudditi sottomessi. Il regno viene suddiviso in tante civitas, distretti o diocesi, ciascuna affidata ad un vescovo con funzione di principe (signorie vescovili). I signori locali giurano fedeltà al re e si impegnano a rispettare la legge, mentre il re si assume l’onere di assicurare la pace e provvedere alla difesa comune. Concretamente, l’amministrazione dello Stato è affidata ad un maggiordomo (maior domus), o maestro di palazzo, che, in origine, è semplicemente il capo dei domestici reali.
La monarchia merovingia presenta elementi di debolezza, che consistono non solo nel tipico vezzo autonomista, che accomuna tutti i barbari, ma anche nella particolare concezione patrimoniale dello Stato, che contraddistingue i franchi e che è sancita dalla legge. In pratica, alla morte del re, il regno dev’essere diviso in parti uguali tra i suoi figli, come qualsiasi altra proprietà privata. Il rischio è quello della frammentazione e della guerra fratricida fra gli eredi, e questa è la ragione per cui, alla fine, il regno dei franchi si frammenta in una pluralità di piccoli regni, i più importanti dei quali, l’Austrasia, a nord-est, che è abitata dai franchi Salii, e la Neustria, a nord-ovest, che è abitata dai franchi Ripuari, sono impegnati in lotte accanite per la supremazia, che inizialmente arridono alla Neustria.
Con la morte di Dagoberto (629-639), che è l’ultimo dei merovingi in grado di mantenere la sua autorità sul regno nel suo complesso, inizia il declino della dinastia, perché i suoi successori, per lo più minorenni o adolescenti, oppure malati, deboli o squilibrati, si comportano da “fannulloni” e sono esautorati dal “maggiordomo”, che diviene una specie di Primo Ministro, con facoltà di esercitare il potere esecutivo e influenzare il re in ogni sua decisione. Ben presto si sviluppa un’accesa competizione per quella carica fra le famiglie aristocratiche, che culmina nel riconoscimento del diritto a trasmettere quel titolo ai figli: è un tentativo di scongiurare guerre fratricide e preservare la stabilità politica, che però non raggiunge lo scopo.
Intorno al 615 assume la carica di maestro di palazzo Pipino il Vecchio, o di Landen, un ricco proprietario terriero e membro dell’aristocrazia d’Austrasia, il quale dà la figlia Begga in sposa ad Ansegiso, figlio di un altro ricco proprietario terriero, Arnolfo, vescovo di Metz (635). Da questa unione nasce Pipino il Giovane, o d’Héristal, da cui prenderà origine la potente casa dei Pipinidi e la dinastia dei Carolingi. Nel 680 Ebroin, il maggiordomo di Neustria, dopo aver massacrato i suoi competitori aristocratici, attacca e sconfigge l’Austrasia, ma viene assassinato. Nello stesso anno diviene maggiordomo d’Austrasia Pipino d’Héristal, il quale, dopo avere sconfitto e ucciso il collega Bertarido di Neustria (687), diviene di fatto il sovrano della Gallia, anche se lascia sul trono il re Merovingio: non si sente ancora abbastanza forte da rovesciarne la dinastia.
Gli succede il figlio Carlo (714), detto Martello, cioè piccolo Marte, per le sue qualità di guerriero, che ingrandisce il regno e, soprattutto, ferma gli Arabi a Poitiers, ciò che gli conferisce una grande fama e la simpatia del papa. Nel 721 egli è riconosciuto maggiordomo di Neustria e Austrasia. Dal 737, anno in cui il trono dei Merovingi rimane vacante, Carlo è, di fatto, il re dei franchi, anche se non in modo formale: il problema rimane quello dei competitori, che sono tanti e aspettano solo l’occasione per tentare una propria scalata al potere. Morto Carlo Martello (741), si scatena la lotta per il potere fra i suoi figli Pipino il Breve e Carlomanno, i quali, per frenare le iniziative degli oppositori, si affrettano a rimettere sul trono il re merovingio Childerico III (743).
Alla fine, Pipino il Breve (747) riesce a imporsi su tutti, ma è perfettamente consapevole che, a causa della sua illegittimità, dovrà sempre guardarsi dai numerosi pretendenti al trono. Childerico è un semplice re fantoccio, e questo lo sanno tutti. Pipino è dunque un usurpatore e sa che, prima o poi, qualcuno cercherà di approfittare di un suo momento di debolezza per rovesciarlo. Il rischio dell’ennesima guerra fratricida per la conquista del potere è concreto. Allo scopo di garantirsi la fedeltà dei propri funzionari, Pipino distribuisce loro delle terre, sotto forma di “beneficio” vitalizio, che, ben presto, diventeranno un bene di famiglia, ereditabile, ma ciò non basta a Pipino per fargli dormire sonni tranquilli. Egli è pur sempre un usurpatore, e ciò lo rende facilmente vulnerabile. È in questo contesto che entra in scena il papa, che, al momento, è Zaccaria (741-752).
Non si sa chi abbia cominciato per primo, dal momento che i contatti vengono svolti in segreto, ma è certo che, tra Zaccaria e Pipino, si stabilisce un’intesa. È difficile credere che sia Pipino a chiedere al papa la consacrazione, a causa del rischio che deriverebbe al maestro di palazzo in caso di diniego: sarebbe come ammettere pubblicamente la sua illegittimità e autorizzare i suoi nemici a muoversi contro di lui. Piuttosto è da ritenere che sia il papa a prendere l’iniziativa e ad offrire a Pipino una piena legittimazione in cambio del suo intervento militare in Italia, e Pipino non può certo lasciarsi sfuggire quell’occasione, anzi, l’accetta senza riserve, impegnandosi a scacciare i Longobardi e i bizantini dall’Italia e a donare le loro terre al papa. Anche il papa accetta, e fa bene, perché ha solo da guadagnare e nulla da perdere. Infatti, se Pipino perde, dovrà sì rassegnarsi ad essere un semplice vescovo longobardo o un subordinato dell’imperatore, ma se Pipino vince, potrà contare su un vasto regno personale, e poi si vedrà.
Forte di questo accordo, Pipino si risolve a deporre Childerico III e si insedia sul trono (751). Adesso urge la legittimazione da parte del papa, che però non sta bene e muore di lì a poco (752). Vi provvede San Bonifacio: è lui a officiare il rito di consacrazione (752), che viene ripetuto due anni dopo dal nuovo papa, Stefano II (752-7), il quale, recatosi personalmente in Francia, unge Pipino, insieme ai suoi due figli, Carlo e Carlomanno. Basta quel gesto a legittimare, agli occhi dei cattolici franchi, la nuova dinastia e a porla al riparo da eventuali attacchi di altri pretendenti al trono. Nello stesso tempo, professandosi difensore del papa e della chiesa di Roma, di fatto, Pipino si candida a capo di un ricostituendo impero universale, erede di quello romano. Insomma, da re illegittimo Pipino diventa aspirante imperatore!
Il debito di riconoscenza da parte di Pipino è enorme e il papa ne è perfettamente consapevole. Egli sa che può contare sul sollecito aiuto del re franco nei suoi difficili rapporti coi Longobardi e si prepara adeguatamente, mentre aspetta il giorno propizio. Intanto, di ritorno a Roma, Stefano II dà ordine ai suoi funzionari di allestire un documento falso, che egli poi avrà cura di presentare a chi di dovere e al momento opportuno. In quel documento, che passerà alla storia col nome di donazione di Costantino, si attesta che il grande imperatore Costantino, per ringraziare papa Silvestro I, che lo ha guarito dalla lebbra, gli ha donato tutta la parte occidentale dell’impero e si è trasferito ad Oriente. Non è noto l’anno esatto in cui il falso documento viene concepito ed elaborato: secondo alcuni, esso è opera di Stefano II, secondo altri, la sua composizione va collocata intorno al 761 sotto il pontificato di Paolo I (757-67), ma ciò non cambia la sostanza delle cose.
L’occasione che il papa aspetta si presenta qualche mese dopo, allorché, il re longobardo Astolfo (749-56), dopo aver conquistato Ravenna (751), minaccia Roma. Chiamato in aiuto da Stefano II, Pipino accorre senza indugio e, sconfitto Astolfo, dona al papa i territori dell’Esarcato sottratti ai Longobardi, inaugurando, con questo gesto, la nascita dello Stato pontificio (756). L’imperatore bizantino protesta: quel territorio appartiene di diritto all’impero. A questo punto il papa esibisce il falso documento della donazione costantinina che, in qualche modo, pone termine alla questione. “Per tutto il Medioevo la falsa Donazione di Costantino rappresenterà la giustificazione del potere temporale dei pontefici” (CHIOVARO, BESSIÈRE 1996: 43). Il falso verrà smascherato solo nel XV secolo, nel corso delle controversie che opporranno il papa a re e imperatori.
Nel volgere di pochi anni, il quadro politico è profondamente cambiato. Uno dei protagonisti, i Longobardi, è uscito dalla scena, mentre il vescovo di Roma si è emancipato dal rapporto di dipendenza dall’imperatore bizantino ed ha accresciuto notevolmente il proprio prestigio. Da questo momento, il papa non è più soltanto un’autorità religiosa e spirituale: egli è anche un’autorità politica e, per di più, ha il potere di legittimare il titolo dei sovrani, come sta a dimostrare il caso di Pipino. Il suo potere, insomma è smisurato. Il terzo protagonista è Pipino che, da semplice maggiordomo che era, ora aspira ad un impero universale. È l’uomo nuovo, che forma, insieme al papa, una coppia formidabile. Da questo momento, il re dei franchi si assume il compito di difendere la Chiesa e le sue leggi, il papa “quello di assicurare l’assistenza divina sulle armi dell’imperatore” (GATTO 2003: 27). Il quarto protagonista, l’imperatore bizantino, perde la sua autorità sul vescovo di Roma e la sua influenza sull’Occidente, e diviene una figura marginale in questa parte del mondo. Nello stesso tempo, si apre un solco tra la chiesa cristiana d’Oriente e la chiesa romana. La prima, riproponendo lo schema classico, rimane centrata sulla figura del vescovo e sul riconoscimento del primato dell’imperatore, la seconda, invece, inaugurando uno schema mai visto in precedenza, riconosce al papa uno status superiore e il potere di consacrare l’imperatore.
Alla morte di Pipino, il regno viene diviso fra i due fratelli, Carlo (768-814) e Carlomanno. Morto Carlomanno (771), Carlo non riconosce i suoi eredi e accentra tutto il potere nelle proprie mani, intraprendendo una politica espansionistica, che, grazie anche all’appoggio del papa, Adriano I, gli consente di creare un vasto impero, meritandogli l’appellativo “magno”. Nel 774 Carlo sconfigge il re longobardo Desiderio e cinge la corona ferrea. Poi, accompagnato dalla benedizione del papa, muove il suo esercito verso nuove conquiste: prima stermina i Sassoni e li costringe con la forza a convertirsi al cristianesimo, poi si rivolge contro gli Avari e gli Arabi. Nell’800 papa Leone III (795-816) consacra imperatore Carlo, e il gesto è di quelli che lasciano il segno, perché si presta ad essere interpretato come conferma del principio, secondo il quale il potere dell’imperatore deriva da quello del papa, cosa che, in realtà, è estranea al pensiero del sovrano, il quale, rendendosi conto del rischio di strumentalizzazioni, quando deve regolare la successione in favore del figlio Luigi, a scanso di equivoci, pretende che il figlio si ponga la corona in testa con le proprie mani (MONTANELLI, GERVASO 1997: 13).
La superiore autorità di Carlomagno, comunque, è tale che il papa non si sogna nemmeno di metterla in discussione: per il momento, gli basta di essersi emancipato dal controllo dell’imperatore d’Oriente e di poter esercitare una quasi piena sovranità universale in campo religioso e una discreta autonomia politica, sia pure limitata al proprio regno. Adriano I (772-95) è come un re: ha la sua corte, i suoi funzionari, il suo esercito e tutto quello che serve ad un regno. Di norma, egli assegna i posti migliori nella cerchia dei propri parenti e gestisce il potere come un semplice affare di famiglia e anche per acquisire ricchezze materiali, che, in parte, vengono destinate ad abbellire la città. Con Adriano, entra in scena la piaga del nepotismo, che tanta parte avrà nella storia del papato. Per il momento Adriano non può sperare di più e si deve accontentare.
Da parte sua Carlo si comporta come successore di Davide e sommo rappresentante di Dio sulla terra e, pertanto, esercita un potere assoluto, non solo in campo politico, ma anche in quello religioso, come dimostra il fatto che egli nomina i vescovi e convoca i concili. Il papa non può essere consacrato senza un mandato imperiale e deve giurare fedeltà all’imperatore prima di assumere le proprie funzioni. Carlo è “davvero, a tutti gli effetti, il vertice della gerarchia cattolica, e il papa poco più di un suo subordinato” (BARBERO 2000: 192). In quanto patrono della chiesa, Carlo è motivo di vantaggi per il papa e gli altri prelati, soprattutto sotto il profilo materiale (donazioni e privilegi), ma anche di svantaggi, come quello dell’ingerenza politica nelle questioni religiose e nella stessa elezione del papa. Di fatto, Carlo esercita la pienezza dei poteri e si serve della religione e della chiesa cristiana “come mezzo per la sottomissione delle popolazioni locali” e “come uno strumento di dominio” (BECHER 2000: 64). Il clero romano soffre di questa ingerenza e cercherà di liberarsene. Per il momento però nessuno all’interno della chiesa osa esprimere parole di critica nei suoi confronti, anche quando il suo comportamento non appare rispettoso dei precetti cristiani. La sua vita di poligamo, per esempio, verrà bollata solo dopo la morte.
Se la legittimazione dell’imperatore, sotto il profilo giuridico, viene dalla religione e dal papa, concretamente essa poggia sull’esercito. La macchina militare franca è poderosa. La sua forza si basa sulla superiorità numerica e sull’organizzazione. Le sue armi principali sono il cavallo e l’arco. Gli obblighi militari sono così gravosi che i più cercano di evitarli, ma non è facile. Tutti gli uomini liberi, compresi i prelati, sono tenuti a rispondere alla chiamata alle armi, ma di solito si ricorre alla leva di massa solo in caso di una grave minaccia d’invasione. Più frequentemente si arruola un numero di soldati adeguato al particolare scopo e si cerca di esentare gli uomini meno agiati, coloro che non possiedono né terre né schiavi, la cui partenza esporrebbe a gravi disagi gli altri membri della famiglia, ma spesso il signore interpreta in modo libero questi principî e favorisce i suoi amici. Col passare del tempo, la gente comincia a sentirsi stanca delle continue campagne militari, che comportano più oneri che gloria, più costi che bottino.
Nell’organizzare l’impero, Carlo si comporta in modo simile a quello di altri re barbari romanizzati, che lo hanno preceduto, come Odoacre e Teodorico, solo che adesso egli si muove in grande e col pieno appoggio del papa. Anche Carlo, come i suoi predecessori, deve comprare la fedeltà dei propri generali e funzionari, elargendo loro dei feudi, chiamati anche contee o marche, e facendo di loro conti e marchesi. Li lega all’imperatore un giuramento di fedeltà, che comporta il dovere di prestargli aiuto militare in caso di necessità. Sono i grandi feudatari o vassalli. A loro volta, questi signori possono affidare una parte del loro territorio ad un altro signore di rango inferiore (valvassore), il quale può fare altrettanto con un altro signore (valvassino), e così via. La società feudale assume così una struttura piramidale: alla base ci sono i signori di infimo rango, quelli che non controllavano altro che il proprio feudo, poi ci sono i signori di livello superiore e, infine, c’è il signore che non ha al di sopra di sé altri che Dio.
Accanto ai feudi vanno ricordate altre due istituzioni, di non minore rilevanza, che contribuiscono a caratterizzare la società medievale: i vescovati, che sono equiparati ai feudi, e le comunità monacali, che, oltre a controllare grandi territori, svolgono un’importante funzione culturale.
La piramide sociale non si esaurisce certo nel sistema vassallatico, ma si prolunga tanto in basso quanto in alto. Al di sotto del feudatario ci sono i funzionari, i soldati, gli artigiani, i mercanti, i contadini e, all’ultimo posto, i servi della gleba; al di sopra c’è l’imperatore e/o il papa, che incarnano l’idea medievale di potere universale; al vertice c’è Dio. In quanto derivante da Dio, il potere è considerato sacro e inamovibile, come pure l’intero ordinamento sociale, che viene inserito in un ordine cosmico perfetto e immutabile, di fronte al quale tutti devono assoggettarsi. Con l’eccezione dell’imperatore e/o del papa, ciascuno dipende da qualcun altro e l’intero potere politico ed economico obbedisce ad una logica di tipo clientelare. Dai sudditi ci si aspetta un’obbedienza incondizionata al loro sovrano e a tutte le altre autorità che lo rappresentano.
I più fortunati e privilegiati sono i sudditi liberi, che lavorano alle dipendenze dell’imperatore, seguiti da quelli che lavorano alle dipendenze di conti, vescovi ed abati, e da tutti gli altri. Meno felice è la posizione dei liberi proprietari e di tutti coloro che lavorano alle loro dipendenze. Schiacciati dagli obblighi tributari e militari, oltre che dai soprusi dei potenti, la loro esistenza si svolge all’insegna della precarietà, se non dell’indigenza, e i più si vedono costretti a vendere le proprietà e asservirsi, mentre solo pochi fortunati riescono ad entrare nel giro clientelare dei potenti. Alla base della piramide sociale si collocano i coloni, i liberti e gli schiavi, che continuano a rappresentare una larga fetta della popolazione, anche se non ai livelli dell’impero romano. Più numerosi sono i liberti che, di fatto, differiscono dagli schiavi solo per il nome. E, infatti, entrambi, schiavi e liberti, vengono abitualmente indicati col comune appellativo di servi. Per consuetudine i figli ereditano il ruolo del genitore e pertanto il sistema sociale è caratterizzato da una elevata stabilità e fissità.
All’interno del proprio feudo, ogni signore esercita un potere pressoché assoluto e, di fatto, si organizza a suo piacimento, amministra la giustizia, stabilisce le norme di legge, stringe accordi, sorveglia i confini, cura l’esercito, dichiara guerra e negozia la pace. Può fare ogni cosa in libertà, con l’unico limite di dover rispettate il giuramento di fedeltà all’imperatore, che, però, spesso si trova a grande distanza e non riesce a controllare adeguatamente i suoi vassalli, i quali, per parte loro, tendono a consolidare il proprio potere, possibilmente estenderlo e, soprattutto, renderlo ereditario e, perciò, vedono il giuramento all’imperatore come un fastidioso fardello, di cui farebbero volentieri a meno. L’imperatore, invece, vorrebbe limitare il potere dei vassalli e, soprattutto, evitare che esso diventi ereditario, al fine di evitare il rischio di trovarsi di fronte a competitori temibili.
Il patrimonio e le entrare dell’imperatore, chiamate “fisco”, sono immensi e comprendono un migliaio di aziende, chiamate curtes o villae, di varia dimensione, dove lavorano globalmente circa mezzo milione di persone: schiavi, liberti, affittuari. Ogni villa, che non occupa necessariamente un’area compatta, potendo essere inframezzata da piccole proprietà contadine o da appezzamenti di altre grandi proprietà, comprende due parti: una destinata a profitto esclusivo del signore, la pars dominica, l’altra suddivisa in mansi e data in affitto. Gli affittuari sono comunque tenuti a prestare gratuitamente un certo numero di giornate lavorative, chiamate corvées, a favore del signore. Anche il patrimonio della Chiesa è immenso e anch’esso è controllato dall’imperatore. Carlo dona continuamente grandi complessi fondiari a vescovi e ad abati. È come se li affidasse alla loro amministrazione: il vero proprietario è lui. Vescovi ed abati hanno il dovere di ospitarlo gratuitamente tutte le volte che egli ne ha bisogno e di versargli periodicamente dei sostanziosi tributi. È ovvio che, a loro volta, vescovi e abati si rivalgono coi propri sudditi. Conti, vescovi e abati costituiscono i pilastri dell’ordinamento pubblico, sono nominati dall’imperatore e a lui rispondono. In realtà, si distinguono due livelli di vescovi: ad un livello superiore i metropoliti, o arcivescovi, ad un livello inferiore si collocano i vescovi diocesani, che dipendono dai primi.
Nell’alto medioevo, l’urbanesimo è scarsamente rappresentato e, pur ospitando la cattedrale e il vescovo, le città costituiscono centri secondari del potere politico ed economico. I feudatari preferiscono abitare nei loro castelli, che cominciano a sorgere maestosi nelle campagne e, insieme alla figura del cavaliere, si avviano a divenire il simbolo di tutta la società feudale. L’obiettivo principale dei signori è l’autosufficienza, non l’arricchimento e, anche se esiste la moneta, il mezzo più abituale delle compravendite rimane il baratto. Gli scambi commerciali sono scarsi, nonostante che l’imperatore si adopera per favorirli, anche attraverso l’uniformazione di monete, pesi e misure. L’economia è di tipo rurale e le condizioni di vita dipendono dal frutto della terra, che è variabile e incostante: basta un evento avverso (carestia, epidemia, guerra) per far entrare in crisi un’intera comunità. I contadini hanno tanti doveri e pochi diritti. Al signore devono pagare delle tasse, alla chiesa la decima parte del raccolto. Devono anche prestare lavori obbligatori e gratuiti (corvées) nell’interesse del padrone. Devono infine pagare i servizi, che sono di proprietà del signore, come il pedaggio di una strada o di un ponte, l’uso di un forno, di un mulino, di un frantoio, e così via. Le donne sono considerate inferiori all’uomo e vivono in stato di sottomissione, al padre prima e al marito poi. Nel suo insieme, la società franca “è organizzata in funzione dell’istituto della grande proprietà” (PERROY 1955: 112) ed è di tipo schiavista. Il popolo è così sovrastato da ignoranza, insicurezza e paura, da non riuscire ad acquisire una chiara coscienza del proprio stato, né ad imporsi come una componente politica di rilievo.
La giustizia è amministrata dai singoli signori locali, che presiedono periodicamente un’assemblea pubblica, detta mallus, dove ascoltano e giudicano le controversie, con la collaborazione di una giuria. Di solito vengono richieste prove scritte o la deposizione di testimoni; in loro assenza, si ricorre ad un giuramento per i reati più lievi, all’ordalia, o giudizio di Dio, per quelli più gravi. La forma più frequente di ordalia prevede che l’imputato immerga la mano in una pentola di acqua bollente o cammini a piedi nudi su tizzoni ardenti: se la scottatura guarisce entro un tempo prestabilito viene dichiarato innocente. Talvolta accusatore e accusato sono sottoposti alla prova del duello giudiziario, armati di scudo e bastone, oppure devono stare in piedi davanti ad una croce con le braccia levate: il primo che cede perde la causa (giudizio della croce). Non sono infrequenti i casi di corruzione dei giudici e di mala giustizia. A tale scopo l’imperatore emana a più riprese disposizioni scritte, i cosiddetti capitolari imperiali, ma questi non annullano, né si sostituiscono al diritto locale: semplicemente, nell’esprimere il giudizio, il signore cerca di armonizzare le esigenze della legge locale con la volontà dell’imperatore, ma l’impresa si rivela tutt’altro che facile. In ultima istanza è comunque possibile appellarsi direttamente all’imperatore.
Una preoccupazione di Carlo è quella di elevare il grado di istruzione della popolazione, che, per la maggior parte, è analfabeta. Anche se egli stesso sa appena leggere, comprende l’importanza della cultura, promuove la produzione libraria e fa ampio ricorso ai documenti scritti per meglio amministrare l’impero. Incoraggiati dall’imperatore, i copisti scrivono in modo chiaro ed elegante, badando ad evitare errori di copiatura, introducono anche l’uso della punteggiatura, il che certo contribuisce a migliorare la leggibilità del testo. Di pari passo, nell’impero si vanno diffondendo le biblioteche: la maggior parte dei testi sono di tipo religioso, ma non mancano i classici. Altre preoccupazioni di Carlo sono quelle di curare la formazione del clero, di elevarne il livello morale, che lascia molto a desiderare, e di uniformare, in tutto l’impero, le pratiche liturgiche e le verità di fede.
Talvolta l’imperatore si lascia coinvolgere in questioni dottrinali, con risultati sorprendenti, com’è il caso della questione del filioque. Il clero franco ha introdotto questo termine, che manca nella versione originaria del Credo, che è in uso non solo nella chiesa orientale ma anche in quella romana. Giunta la questione al giudizio di papa Leone III, questi si pronuncia a favore della formula tradizionale e dà torto al clero franco, il quale, però, non contento, vuole anche sentire il parere dell’imperatore. Nell’809 si riunisce ad Aquisgrana un Concilio della chiesa franca e in quell’occasione Carlo non solo si pronuncia a favore del filioque, ma invia anche una nota scritta al papa per informarlo del suo errore. Leone III non ci sta e continua ad usare il Credo nella sua formula tradizionale. Dovranno trascorrere due secoli, prima che il papa dia ragione a Carlomagno (BARBERO 2000: 266-7).
Nell’806 Carlomagno dispone che, alla sua morte, l’impero dovrà essere diviso fra i tre figli e solo il caso decide che, a sopravvivergli, sarà un unico figlio: Lodovico il Pio (814-40). Per il momento l’unità dell’impero è salva. Intanto, approfittando della scomparsa di Carlo, alla cui forte personalità il papa aveva dovuto soggiacere, Pasquale I (817-24) riesce a strappare all’imperatore la promessa che non interferirà nell’elezione del papa e negli affari interni dello Stato pontificio. Ma già il suo successore, Eugenio II (824-7), deve accettare la supervisione imperiale sull’amministrazione di Roma, insieme al giuramento di fedeltà all’imperatore da parte di ogni papa neoletto e di tutti i cittadini romani. È nella Constitutio Lothari (824) che vengono fissate le nuove modalità dell’elezione papale. In particolare, si stabilisce che, prima di procedere alla consacrazione del neoeletto, l’elezione dev’essere approvata dall’imperatore d’Occidente (che, in tal modo, si sostituisce a quello d’Oriente). Siamo all’”apice della potenza imperiale sullo Stato pontificio” (RENDINA 1996: ). Sotto Sergio II (844-7) si conferma quanto sopra e si stabilisce che il papa non può essere consacrato senza un mandato imperiale. Per il momento la partita è chiusa a favore dell’imperatore.
Per scongiurare il pericolo di frammentazione dell’impero, Lodovico si affretta a proclamare unico successore il primogenito Lotario (817), escludendo gli altri due figli, che però, appellandosi al costume franco, aprono, alla morte del padre (840), una guerra fratricida. Gregorio IV (827-44) assiste impotente a questa lotta, che si conclude con il trattato di Verdun (843) e la spartizione dell’impero in tre parti: Lotario riceve la Lotaringia, Lodovico la Germania, Carlo il Calvo la Francia. Di fatto, è la fine di un sogno, durato meno di 50 anni. La Francia è ora costretta a subire le incursioni normanne, nei confronti delle quali, i re franchi appaiono impotenti.
Anche Roma è soggetta al pericolo saraceno e deve subire un’incursione (846). Leone IV (847-55) decide di correre ai ripari ed eleva una nuova cinta muraria a difesa della riva destra del Tevere, dove sorge il Vaticano. Nello stesso tempo abbellisce la città, che verrà chiamata Civitas Leonina. Pericolo saraceno a parte, è un momento buono per Roma. Lotario chiede al papa di incoronare il figlio Lodovico (850) e lo stesso vale per altri regnati d’Europa. Se il papa conferisce titoli e legittimità ai potenti della terra, ciò vuol dire che egli è più potente di loro. Da questa coscienza prendono origine le cosiddette Decretali di Isidoro, che, in aggiunta alla Donazione di Costantino, pongono il papato in una posizione di dominio e creano le condizioni per una svolta epocale nella storia del papato.

07.1. Elezioni del papa
Nel IX secolo Roma è suddivisa in ventotto parrocchie, ciascuna delle quali è governata da un cardinale-prete, mentre il suo territorio provinciale è suddiviso in sette diocesi, ciascuna della quali è presieduta da un cardinale-vescovo. Questi trentacinque cardinali, insieme ai sette diaconi degli ospedali più importanti, ai sette giudici del palazzo del Laterano e ad alcuni dignitari della chiesa, costituiscono uno dei tre organi elettivi del papa, gli altri due organi essendo il popolo e l’imperatore. In pratica, le cose funzionano così. Quando muore un papa, il suddetto collegio indica il nome del successore e la loro scelta viene sottoposta al giudizio del popolo, che può approvarla o respingerla con applausi o schiamazzi. Se un papa è eletto con l’accordo di tutti, la sua consacrazione può avvenire solo dopo che l’elezione sia stata ratificata dall’imperatore e, a meno che non vi siano gravi motivi, di norma l’imperatore ratifica. Di norma, il papa è eletto dai nobili e dal clero romani, e ciò depone per una sua autorità essenzialmente locale. Se invece non vi è accordo, l’intervento dell’imperatore diviene inevitabile e determinante nella scelta. In ogni caso, il papa è tenuto a giurare fedeltà all’imperatore (GIBBON 1967: 1975).

L’angusta dimensione locale dell’autorità papale comincia ad essere superata, anche grazie alle Decretali, che vengono pubblicate in Francia, intorno all’850, sotto il nome del celebre vescovo di Siviglia. In realtà, come sarà dimostrato in seguito, si tratta di un documento falso, che è stato concepito e redatto da qualche vescovo, che, mal tollerando il controllo dei signori locali, si appella appunto alle Decretali, le quali sostengono che il vescovo dipende direttamente dal papa. In altri termini, nel tentativo di liberarsi dall’ingombrante peso dell’autorità locale, quel vescovo ha preferito accettare la dipendenza dal papa, che risiede nella lontana Roma: tale il senso delle Decretali. Quello sventurato non sa che sta consegnando al papa un’arma formidabile, di cui questi non esiterà a servirsi per estendere la sua autorità su tutta la chiesa.
Non passa, infatti, molto tempo che Niccolò I Magno (858-67) brandisce proprio delle Decretali come arma contro re e vescovi. È emblematico il caso di Lotario, che ha ripudiato la moglie: nonostante la benedizione del suo nuovo matrimonio da un concilio di vescovi, deve piegarsi di fronte alla decisione avversa del papa, che dichiara nullo quel matrimonio. Niccolò afferma che nessun concilio può avere una forza vincolante e nessun vescovo può essere deposto senza l’approvazione del papa. I monarchi, insomma, non possono deporre un vescovo senza il consenso di Roma. È il ribaltamento di una tradizione secolare, un formidabile attacco ad una consolidata prerogativa dell’imperatore, anche se, in questo momento, non c’è alcun imperatore in grado di raccogliere la sfida e rispondere per le rime. La distanza che separa Niccolo I dai primi vescovi di Roma è così grande da escludere qualsiasi rapporto di continuità: si tratta di due istituzioni completamente diverse fra loro, accomunate soltanto dal progressivo allontanamento dallo spirito cristiano delle origini. A partire da Costantino, i papi si appellano sempre meno alle Sacre Scritture e allo spirito evangelico, e sempre più a documenti falsi, appositamente creati con scopi materiali e politici! Ma anche questo, in fondo, è un segno di debolezza, se non altro dal punto di vista spirituale.
Niccolò I aveva potuto comportarsi da sovrano assoluto e universale, ma dopo di lui, il papato attraversa un periodo di crisi, che è legata, in qualche modo, al declino dell’impero carolingio, e i suoi successori dovranno fare i conti con gli interessi contrapposti di re e vescovi. Quanto accade qualche anno più avanti, sotto il papato di Adriano II (867-72), è illuminante. Alla morte di Lotario, il regno dovrebbe passare, per diritto, a Lodovico II, ma Carlo il Calvo s’impossessa di quel regno e si fa incoronare e legittimare dal vescovo di Reims, Incmaro. In questo caso, benché si adoperi in mille modi, il papa non riesce ad evitare l’usurpazione. Da qui in avanti, si procederà con alterne vicende, ma con un papa sempre più cosciente del proprio ruolo e sempre più determinato a consolidarlo.
Giovanni VIII (872-82) entra nella lotta per il potere imperiale, che vede di fronte i due fratelli, Carlo il Calvo e Lodovico II, e parteggia per il primo: lo incorona a Roma, ricevendo in cambio molto denaro, insieme alla promessa di sostenere i disegni del papa medesimo. Più tardi, Giovanni potrà dire che l’imperatore è una sua creatura, ma resterà deluso. L’imperatore, infatti, non gli verrà in soccorso per liberarlo dal dominio dei saraceni e dalla vergogna di dover pagare loro un tributo. Lasciato solo in questa lotta, Giovanni decide di creare una piccola flotta, di cui egli stesso assume il comando e con la quale partecipa ad azioni di guerra, anticipando la figura di Giulio II. È un altro momento di svolta nella storia del papato: il papa scende in prima persona sul campo di battaglia. La distanza dallo spirito evangelico si fa più evidente.
Dopo la breve riunificazione dei domini imperiali compiuta dal figlio di Lodovico, Carlo il Grosso (884-7), la frammentazione dell’impero assume carattere definitivo e dà origine ai regni di Francia, di Germania e d’Italia. Nell’888 Carlo il Grosso muore e, con lui, si estingue la dinastia carolingia. Da ogni parte spuntano nuovi pretendenti ai vari troni e all’impero. Insieme al declino dell’impero franco, l’Europa deve subire, nel IX-X secolo, le invasioni barbariche e le incursioni piratesche, operate da magiari, avari, scandinavi e musulmani, che non sono meno disastrose per la cristianità occidentale di quelle del V-VI secolo, ad opera dei barbari.
In questo periodo turbolento, il papa non sta a guardare e continua a tessere le sue trame: ormai è un personaggio politico di prima grandezza, che brilla di luce propria e ama svolgere il ruolo di ago della bilancia nelle contese internazionali. Così, papa Formoso (891-896) decide di sostenere Arnolfo di Carinzia e lo incorona imperatore (896), ma ormai l’impero esiste solo di nome, ed è anche grazie alla sua debolezza che l’aristocrazia romana può alzare la cresta e condursi in modo del tutto indipendente. Il risultato è che il papato resta in balia delle grandi famiglie romane che, convinte di dovere e potere bastare a se stesse, si contendono il seggio di Pietro a suon di intrighi, aggressioni e violenze. Da questo momento, l’elezione del papa diventa un loro affare interno, un loro esclusivo terreno di caccia.
Sergio III (904-11) “è il primo papa che arrivi al trono pontificio per volere di una forte famiglia nobile romana” (RENDINA 1996: 253). Negli anni seguenti, i riflettori della storia metteranno in primo piano gli intrighi delle famiglie e lasceranno in ombra la persona del pontefice. Giovanni X (914-28) è l’ultimo papa capace d’imporre una propria personalità, prima di una lunga serie di papi-fantoccio, semplici pedine nel gioco di potere che agita l’aristocrazia romana. Il papato è ormai allo sbando: si occupa solo di politica e di questioni materiali e perde ogni prestigio morale. Alcuni papi, come Giovanni XII (955-64), si abbandonano alla vita sfrenata e ai piaceri della carne, e fanno del palazzo del Laterano “un vero e proprio bordello” (RENDINA 1996: 267). Lo spirito evangelico è assente, e la distanza dal Regno di Dio massima.

07.2. La Francia alla fine del X secolo
In un periodo di grande confusione e debolezza dell’impero emerge la figura di Roberto il Forte, il cui figlio Oddone viene eletto re di Francia (888-98). Alla morte di Oddone, il trono di Francia è conteso dai discendenti di Carlomagno e quelli di Roberto, i cosiddetti Robertini, che finiscono col prevalere e inaugurano, con Ugo Capeto (987-96), la dinastia dei capetingi, che manterrà il potere in Francia per i successivi ottocento anni.

06. I longobardi

Il sogno di Giustiniano di ricostituire il vecchio Impero dura pochi anni e già sull’Italia cala l’ombra dei Longobardi. Come tutte le altre popolazioni barbariche, ma forse ancor di più, i Longobardi sono piuttosto individualisti e vivono in grandi clan, detti fare, ciascuno dei quali è organizzato autonomamente intorno alla figura di un capo o duca. Nel 568, alla guida di Alboino (561-572), un grande esercito si muove intenzionato ad attraversare le Alpi: sono 35 duchi con le rispettive fare, insieme a numerosi alleati, Svevi, Ostrogoti, Gepidi, Sarmati, Bulgari, Turingi, Avari e Sassoni, seguiti da donne, vecchi e bambini, dai carri con le masserizie e dagli armenti, in tutto cinquecentomila persone. È uno spettacolo impressionante per i locali vedere scorrere impotenti, sulle proprie terre, quella interminabile fiumana di uomini e animali, che rapinano e devastano! L’intenzione è chiara: conquistare l’Italia e dividersela. E così fanno. A mano a mano che conquistano un territorio, un duca si ferma ad occuparlo, si impossessa di tutte le terre e rende schiava la popolazione, mentre tutti gli altri avanzano, senza insistere troppo se trovano dei luoghi ben difesi. Così, a poco a poco, si impossessano di gran parte della penisola italica, che non invadono in modo sistematico, ma occupano a macchia di leopardo. Alboino si insedia a Pavia, ma non ha il tempo di occuparsi dell’organizzazione del nuovo regno, perché muore poco dopo aver coronato con successo la sua opera.
Dopo la sua morte, i Longobardi si mostrano insofferenti nei confronti di un istituto monarchico, che evidentemente non fa parte del loro bagaglio culturale, e si avviano verso un decennio di anarchia, in cui ogni duca si regola all’interno del proprio territorio come meglio crede, disinteressandosi degli altri. Anche se minacciata dai longobardi, Roma è ancora in mano ai bizantini e il suo vescovo rimane uno dei pochi punti di riferimento per i bizantini, in un’Italia, che appare loro sempre più lontana. Il papa ha bisogno dell’imperatore e delle sue truppe, ma anche l’imperatore ha bisogno del papa, il quale potrebbe voltargli le spalle e stringere buoni rapporti coi nuovi arrivati. È un rapporto equilibrato, quasi paritario, in cui il papa può far sentire la propria voce e avanzare le proprie pretese, senza rischio di ritorsioni. Così, Pelagio II (579-90) ricomincia a rivendicare il primato petrino, senza essere contrastato.
È solo quando si sentono minacciati da franchi e bizantini, che i duchi longobardi decidono di unirsi sotto un solo re e scelgono Autari. Per prima cosa Autari (584-90) conferma, come la capitale del regno, Pavia, che ben si presta allo scopo, essendo la città meglio fortificata d’Italia, impone un tributo ai sudditi, riorganizza l’esercito e chiama all’ordine i duchi ribelli, quindi si adopera con parziale successo nel creare un clima disteso con i potenziali nemici, in particolare coi franchi, coi Bavari e col vescovo di Roma, mentre rimangono tesi i rapporti coi bizantini. In realtà, a differenza di quanto è avvenuto con Odoacre e Teodorico, che si erano mossi con benestare di Bisanzio, i Longobardi hanno agito autonomamente e si sono imposti unicamente con la forza delle loro armi: nessun legame, dunque, li unisce all’imperatore.
Autari non riesce ad unificare l’Italia, e nemmeno ci riescono i suoi successori, a causa di due ostacoli, che si rivelano insormontabili. Il primo è rappresentato da alcune roccaforti bizantine, che sono situate in prossimità del mare: per la verità, nei loro confronti i Longobardi non provano un grande interesse, anche perché non amano il mare. Il secondo ostacolo è costituito dai possedimenti del papa , che pur non costituendo un vero e proprio Stato, si estendono per buona parte dell’Italia centrale e sono difesi dal papa attraverso una condotta politica, per certi versi ambigua, ma efficace. Giocando sui rapporti di potere, che oppongono franchi e Longobardi, il papa fa sì che i franchi gli promettano la donazione di un “regno” in cambio del suo appoggio, mentre i Longobardi evitano di attaccarlo per paura di entrare in guerra contro i franchi.
C’è poi un’altra rimarchevole differenza tra i Longobardi e i barbari che li hanno preceduti: mentre Odoacre e Teodorico avevano avuto modo di formarsi culturalmente all’interno dell’impero romano, i duchi longobardi ignorano la civiltà romana e conservano una cultura puramente tribale. Perciò Autari si trova a partire quasi da zero e, di conseguenza, i risultati non sono brillanti. Privi di ogni senso del diritto, i Longobardi si impossessano di tutto e lo difendono con la forza, mentre i vinti vengono trattati come schiavi. Loro, i vincitori, da buoni nomadi, diffidano delle città e preferiscono insediarsi nelle campagne, anche se in alcuni casi accettano di raccogliersi in quartieri fortificati (le curtis). L’economia longobarda rimane perciò confinata nelle campagne ed è un’economia agricola e autarchica, con scarsi interessi nei confronti delle attività commerciali e chiusa agli scambi culturali e al progresso.
Agilulfo (590-615) sale al trono nello stesso anno in cui, viene elevato al soglio pontificio una delle più straordinarie figure di papa, Gregorio Magno (590-604), il quale è reduce di una folgorante carriera, che lo ha portato a divenire prefetto di Roma (572), prima di decidere di abbandonare la politica e dedicarsi alla vita monastica. Agilulfo si converte al cattolicesimo (615), a ciò indotto dalla moglie Teodolinda, alla quale, si racconta che, qualche anno prima, Gregorio avrebbe fatto un prezioso omaggio, la cosiddetta corona ferrea, che ha un anello ricavato da un chiodo della Santa Croce e che, per molti secoli, sarà considerata un importante simbolo sacro e di potere. Gregorio si viene a trovare di fronte a un dilemma: deve continuare ad aspettare la ricostituzione dell’unità dell’impero o appoggiarsi al re longobardo? Al momento, la situazione non gli sembra sufficientemente chiara e non sente in grado di decidere da che parte stare: i longobardi sono troppo vicini e vogliono, a tutti i costi, impadronirsi di Roma, i bizantini sono troppo lontani e non sembrano in condizione di ristabilire l’unità dell’impero. Intanto si gode il suo status di effettivo capo di Roma e di “più grande proprietario terriero d’Occidente” (DUFFY 2001: 85). Ama definirsi servus servorum Dei e non s’interessa di politica. Vorrebbe un’Europa unita nella pace e nella fede.
I Longobardi intanto mettono in luce alcuni limiti: non sanno mantenere buoni i rapporti coi loro potenziali nemici, e cioè i franchi e i bizantini, così come non sanno rendere solido il potere del re, che è continuamente messo in discussione dall’invincibile autonomismo dei duchi. Devono trascorrere oltre 70 anni dall’invasione di Alboino prima che un re longobardo, Rotari (636-52), introduca nel suo regno un codice di norme giuridiche, il cosiddetto Editto di Rotari (643), il quale, tra l’altro, conferma la scarsa influenza che ha su questi barbari la cultura romana. Queste norme, infatti, ricalcano principî tratti dai costumi tribali, che vengono adattati ai nuovi tempi e alla nuova situazione. I longobardi, tuttavia, fanno propria la giurisdizione romana che regola la proprietà privata: adesso che essi si sono appropriati dei territori conquistati, ci tengono a salvaguardare il “loro” patrimonio immobiliare e, di conseguenza, l’Editto commina pene severe per i ladri. Ai servi viene riconosciuto qualche diritto, ma si stabilisce che essi debbano restare tali per tutta la vita. Ai contadini poi viene fatto divieto di riunirsi in modo sedizioso, affinché l’ordine sociale non abbia a subire sussulti e cambiamenti. Ne risulta il quadro una società duale e statica, squilibrata a vantaggio dei vincitori e delle classi possidenti.
Finora i Longobardi non sono riusciti né a costituire uno Stato unitario, né a sottomettere tutta l’Italia: in mano ai bizantini rimangono le isole maggiori, parte della Puglia e della Calabria e l’Esarcato di Ravenna, che comprende Roma. Ci prova Liutprando (712-44) con una politica articolata in due punti: primo, blandire il papa e metterlo dalla propria parte; secondo, cacciare i bizantini dall’Esarcato. Al papa dona il feudo di Sutri (728), dando così formalmente inizio al suo potere temporale, e gli garantisce il proprio appoggio, oltre all’assicurazione che avrebbe difeso gli interessi spirituali della chiesa, e a suggello di questo suo impegno, si proclama “principe cristiano e cattolico”. Adesso Liutprando può passare al secondo punto. Per due volte cerca di conquistare Roma (728 e 742), sottraendola ai bizantini, ma non vi riesce, anche per l’opposizione dei papi, Gregorio II (715-31) e Gregorio III (731-741), che, evidentemente, preferiscono il debole controllo dell’imperatore, piuttosto che la pressante presenza di un re locale. Il papa sa che, in caso di un successo longobardo, potrà conservare il suo feudo di Sutri insieme al suo indiscusso primato spirituale su tutti gli altri vescovi d’Occidente, ma questa prospettiva non lo appaga. Leone Magno e Gelasio hanno vagheggiato una prospettiva ben più promettente, e rassegnarsi a svolgere il ruolo di un semplice vescovo longobardo pare, al momento, inaccettabile. Il papa, però, non vede di buon occhio nemmeno la dipendenza nei confronti dell’imperatore, che gli offre solo la prospettiva di essere uno dei cinque più prestigiosi vescovi cristiani, e nulla di più, anche se questa appare, al momento, la soluzione più plausibile e rispettosa della tradizione. Il papa, infatti, è, e si sente, formalmente, un suddito dell’imperatore bizantino.
I rapporti tra il papato e Costantinopoli però non sono buoni, soprattutto dopo che l’imperatore Leone III (717-741), ha vietato il culto delle immagini sacre, cosa che non piace al papa. A ciò va aggiunto il fatto che il papa si trova a dover fronteggiare anche la pressione araba, e sa che l’imperatore è troppo lontano per potergli essere di grande aiuto nella fattispecie. C’è però all’orizzonte una terza opzione, che consiste nel puntare sulla forza emergente dei i franchi, ma, per il momento, essa non sembra alimentare eccessive speranze. Un primo appello di Gregorio III a Carlo Martello cade nel vuoto. Carlo, infatti, non ha alcuna intenzione di rinunciare all’amicizia coi longobardi, che sono imparentati con la sua stirpe. Ma il papa non demorde e continua a seguire, con crescente interesse, quanto avviene nella corte merovingia, il cui trono è vacante dal 737 e dove il maestro di palazzo, Pipino d’Héristal, dopo essere riuscito ad imporre, con la forza, la propria dinastia (741), è in cerca di una forte legittimazione, che lo metta al riparo dalle mire di potere degli avversari. In attesa di futuri eventi, per il momento il papa preferisce rimanere sottomesso all’imperatore, il che significa che ogni nuovo papa deve chiedere e pagare profumatamente “il mandato imperiale per la propria consacrazione” (DUFFY 2001: 103).

05. I bizantini

Nella seconda metà del V secolo, la situazione a Costantinopoli è molto migliore che a Roma, soprattutto per il diverso atteggiamento della Chiesa orientale, che si schiera a sostegno dell’imperatore e si rifiuta di scendere a compromessi coi barbari. “Insomma in Oriente la religione rianima la vita dell’impero, in Occidente la sostituisce. Per questo in Oriente non c’è Medioevo” (MOMIGLIANO 1987: 372-3). Dopo la caduta di Roma, l’imperatore d’Oriente continua a considerarsi come “l’unico legittimo rappresentante dell’Impero romano” (COGNASSO 1976: 74).
Nel 536, approfittando dei contrasti dinastici esplosi alla morte di Teodorico, l’imperatore Giustiniano (527-565) decide di passare alla controffensiva ed ha così inizio la guerra gotica che, per quasi vent’anni, insanguina e devasta la penisola. Alla fine i Goti vengono cacciati (552) e una parte dell’Italia ritorna sotto il controllo di Costantinopoli (esarcato di Ravenna). Adesso che l’imperatore si è avvicinato, il papa non può far altro che sottomettersi alla sua autorità, che, d’altronde, non è stata mai messa in discussione. Anche Giustiniano, come Gelasio, ritiene che due siano i poteri supremi, quello imperiale e quello vescovile, ma, differentemente da Gelasio, vede la massima autorità nell’imperatore, il solo che può nominare e rimuovere i vescovi, avere l’ultima parola in fatto di ortodossia, regnare su un unico impero e una sola chiesa e svolgere il ruolo di vicario di Dio sulla terra (DUFFY 2001: 79-80). Per il momento, la contesa si chiude a vantaggio dell’imperatore, che può continuare a considerare il papa come un proprio funzionario.
Un paio di anni dopo (534) Giustiniano riesce a riconquistare parte del Nordafrica, dove istituisce l’esarcato di Cartagine. È un momento buono per l’impero d’Oriente, che adesso ha riguadagnato la supremazia navale nel Mediterraneo. Non passa molto tempo però, ed ecco che i bizantini devono subire la pressione longobarda, insieme a quella di avari e persiani, che avanzano in armi. L’impero rischia di cadere quando Eraclio (610-41), un geniale uomo di guerra, riesce a salvarlo, anche se i pericoli non sono finiti. Dopo alterne vicende, la guerra persiano-bizantina (572-628) si conclude con un nulla di fatto, ma con le due potenze prostrate, specie la Persia, che entra in uno stato di anarchia.
Ad approfittare sono i successori di Maometto, che si avventano su entrambi gli esausti vicini: l’impero persiano cade, quello romano d’Oriente sopravvive, ma a prezzo di pesanti perdite territoriali. Nel 674-5, gli arabi giungono ad assediare Costantinopoli, ma vengono respinti. Ancora una volta l’impero è salvo.
Sotto il regno di Leone III (717-41), si apre la cosiddetta lotta iconoclasta (726), che costituisce per l’imperatore un pretesto per liberarsi dalla crescente potenza dei monaci, la quale è basata anche sullo sfruttamento della superstizione popolare per mezzo delle immagini sacre. Ora, la proibizione del culto delle immagini viene appunto a costituire lo strumento attraverso il quale può giustificare la persecuzione dei monaci. Il papa è contrario a questa politica di Bisanzio e comincia a guardare con crescente interesse all’emergente potenza carolingia. Indebolito da lotte intestine per il potere, l’imperatore d’Oriente nulla può per impedire che Carlomagno venga incoronato a Roma (800). La lotta iconoclasta finisce nell’843, quando il concilio di Nicea ripristina il culto delle immagini, e lascia sul campo un deterioramento dei rapporti fra Costantinopoli e Roma.
A partire dall’867, Bisanzio comincia a crescere grazie ad una fortunata serie di imperatori-soldati-amministratori inaugurata da Basilio il Macedone, che copre un periodo di quasi due secoli: è l’apogeo dell’impero (867-1057). In questo periodo Bisanzio riconquista prima la Calabria e Taranto e poi la Mesopotamia, l’Armenia, la Cilicia e la Siria. Con Kiev i rapporti sono inizialmente ostili, ma poi si distendono, specie dopo il battesimo di Vladimiro (988), e consentono la diffusione del cristianesimo e della cultura bizantina nell’Europa orientale. Rimangono i preoccupanti problemi sociali, che affliggono l’impero sin dai tempi di Giustiniano e che consistono in un’iniqua distribuzione delle risorse, che favorisce le classi possidenti e aristocratiche e che dà ricchezza ai ricchi e tutela scarsamente i poveri. Al momento questi squilibri sociali generano solo qualche isolata rivolta contadina, che è facilmente controllabile da imperatori validi, ma sono destinati a diventare un fattore di crisi profonda il giorno in cui l’impero dovesse, per una qualche ragione, indebolirsi.

04. Il primato di Pietro

Il problema numero uno degli Odoacre e dei Teodorico è la loro mancanza di legittimazione: di fatto, essi governano solo in virtù della loro forza e della benevola accondiscendenza dell’imperatore bizantino, che rimane il legittimo sovrano del loro regno. In ogni momento egli potrebbe intervenire col suo esercito e spazzarli via, e sono in molti ad aspettare questo momento, che rappresenterebbe la ricostituzione dell’unità dell’impero e il ritorno alla “normalità”. Fra costoro c’è anche il vescovo di Roma. Anch’egli riconosce come legittima autorità l’imperatore d’Oriente e a lui si rapporta più che con questi barbari conquistatori di passaggio. Ma l’imperatore è lontano e ciò conferisce al vescovo romano una straordinaria libertà di parola e di comportamento.
È in questo contesto che Gelasio (492-6) matura la profonda convinzione della dignità del proprio ufficio, giungendo a proclamare la superiorità del potere (spirituale) del papa su quello (materiale) del re, ed è la prima volta che ciò accade. Non si tratta di una svolta rivoluzionaria, ma di una logica evoluzione di un’idea, che è rimasta implicita sin dai tempi di Costantino, e che se solo ora può essere espressa con chiarezza. È la conferma dell’ingresso del papato nella politica internazionale. La logica di Gelasio sancisce il cosiddetto “primato petrino”, ossia il potere universale del vescovo di Roma. Va da sé che questa dottrina non è affatto condivisa dall’imperatore, che però, al momento, è impotente e deve subire, ed rigettata anche dai vescovi orientali, che la ritengono infondata e pretestuosa.

04.1. Il ragionamento del vescovo-papa
La logica del ragionamento di Gelasio, da cui si svilupperà la storia del medioevo, è formalmente ineccepibile e la veridicità delle sue conclusioni dipende da come ci si pone di fronte all’esistenza di Dio: se Dio esiste, quelle conclusioni sono vere, se non esiste sono false, se esiste solo per fede sono solo verità di fede.
Ma c’è un altro aspetto da considerare, ed è quello della Verità Rivelata, che sta alla base della religione cristiana. Secondo questa dottrina, Dio ha manifestato la sua volontà ad alcuni uomini, che l’hanno fissata in forma scritta. Ora, anche ammettendo che Dio esista, il buon cristiano dovrebbe attenersi alla sua volontà, che ci è stata rivelata nel Nuovo Testamento. Ebbene, questa volontà comanda al cristiano di non dedicarsi alle cose di questo mondo e di non entrare in politica. Dunque, la teoria di Gelasio è antitetica con la logica divina e, in quanto tale, sicuramente falsa. La storia poi dimostrerà che è anche deleteria.

Coerentemente con la sua logica, il papa vuole emanciparsi da ogni condizionamento possibile circa la propria elezione, in modo da non dipendere da nessuno. Per il momento, l’imperatore è lontano e non costituisce un vero problema: il vero problema è costituito dal senato romano, che agisce in rappresentanza del popolo. Volendo liberare l’elezione del papa da questa odiosa dipendenza, Simmaco (498-514) convoca a Roma un concilio (499), il quale riconosce al pontefice il diritto di designare il successore e stabilisce che, in caso di mancata designazione, il papa verrà eletto solo dal clero. In realtà questa deliberazione non avrà seguito e il senato continuerà a svolgere una funzione determinante nell’elezione del papa. Tuttavia, l’evento è sintomatico della coscienza che il papa ha di sé e del proprio ruolo, anche in campo politico, e che si accompagna ad un adeguato stile di vita. Il vescovo di Roma, infatti, si comporta come un gran signore e si serve delle sue grandi ricchezze patrimoniali per vivere nel lusso. Molti fedeli non approvano quell’ostentazione di potere e di sfarzo, che ritengono contraria ai princìpi del cristianesimo, e reagiscono rifugiandosi nel monachesimo.

04.2. Il monachesimo
In occidente, il monachesimo si organizza e si diffonde grazie all’opera di Benedetto da Norcia (480 - ca. 547), un giovane di nobile famiglia che, poco dopo la morte di Gelasio, viene inviato a Roma per compiere gli studi. Impressionato dallo stile di vita del vescovo di quella città, Benedetto si fa eremita e infine fonda un’abbazia a Montecassino (525) e impone alla comunità una Regula (529). La regola benedettina stabilisce l’obbligo della residenza nel monastero, la povertà, la castità, la sottomissione all’abate, il lavoro manuale unito alla preghiera, il dovere d’ospitalità, la cura dei poveri e l’insegnamento.

Roma ha perso da tempo il suo antico splendore e si è avviata a divenire una città clericale. Il suo aspetto è decadente, sia dal punto di vista urbanistico che demografico, la povertà dilaga e l’unica attività pubblica fiorente è la costruzione di chiese, che, nella misura in cui offre lavoro alla povera gente, svolge una funzione positiva.

03. Quando inizia il medioevo

Come appare chiaro da quanto appena detto, Odoacre e Teodorico non si comportano da rozzi barbari, ma da personaggi politici avveduti, che, riconoscendo l’inferiorità della loro cultura, accettano di “romanizzarsi”, facendo propri molti valori e costumi cari alla cultura dell’ex-impero, come quelli della gerarchia sociale, dell’apparato burocratico, dell’imposizione fiscale, dell’esercito permanente, della proprietà privata, della centralità della famiglia e della trasmissione ereditaria dei beni. In pochi decenni, quei barbari riescono a percorrere un cammino che, per le tribù meso-neolitiche della Fertile Mezzaluna, aveva richiesto migliaia di anni. Non si può parlare negli stessi termini di un regresso dei romani nella barbarie, ossia di una loro “barbarizzazione”.
L’unica cosa che tramonta è l’impero. Al suo posto ora ci sono una pluralità di regni, che sono imperniati sulla forza fisica dei barbari e sui valori della cultura romana e dove la vita continua sugli stessi livelli di prima. Insomma, l’arrivo dei barbari non rappresenta un momento di svolta epocale e non viene vissuto dalla gente comune come un cambiamento radicale rispetto al passato.
La svolta epocale c’era stata prima, quando, sotto Costantino, i vescovi cristiani. rinnegando la loro fede originaria, avevano deciso di entrare nella politica di questo mondo. È questo il momento d’inizio del medioevo. L’aspetto curioso della vicenda è che, mentre l’impero cade in frantumi, il cristianesimo romano è andato sviluppando l’idea di impero universale, che sembra essere superata dai tempi attuali, ma che ritornerà in auge tre secoli dopo, ai tempi dei Carolingi.
In pratica, i regni barbarici rendono anacronistica questa ideologia, che, tuttavia, andrà avanti comunque fino a concretizzarsi nell’istituzione del papato. Bisognerà aspettare l’Età moderna e l’affermazione dei regni nazionali (che ricordano i regni romano-barbarici) prima che l’idea di impero universale possa dirsi quasi del tutto superata.

02. I barbari

Mentre i romani consolidano ed ampliano il loro impero, il Nord-est d’Europa e l’Asia Anteriore sono abitati da una miriade di clan e tribù, che conducono un’esistenza paragonabile a quella delle popolazioni che affollavano la Fertile Mezzaluna tra meso- e neolitico (cfr. capp. 7-8). Neanch’esse non conoscono la scrittura, né il diritto, né la proprietà privata, né la stratificazione sociale. Ma c’è un’importante differenza: mentre le popolazioni del Vicino Oriente rappresentavano esse stesse la massima espressione culturale del momento e non avevano punti di riferimento davanti a sé, le tribù di Eurasia hanno la possibilità di confrontarsi con una civiltà di gran lunga superiore, vale a dire proprio con quell’immenso impero romano, col quale confinano. Sono i cosiddetti barbari.
A causa di un progressivo incremento demografico, clan e tribù si trovano a vivere sempre a più vicino contatto fra loro e, come già era accaduto nel Vicino Oriente, anche queste tribù avvertono il bisogno di realizzare società sempre più ampie e meglio organizzate, le sole in grado di rispondere efficacemente alle sfide del tempo, ma la loro massima organizzazione sociale non va oltre il dominio. Tra le diverse popolazioni i rapporti sono generalmente pacifici, anche se non mancano le competizioni e i contrasti, le azioni di rapine e le razzie, le iniziative tese a cercare nuovi spazi da sfruttare e nuove risorse da consumare, e non mancano nemmeno i tentativi di imporsi militarmente, perpetrati da qualche capo particolarmente ambizioso, che riesce a raccogliere intorno a sé diverse tribù e a guidarle in azioni di vere e proprie conquiste militari, fino a fondare, appunto, un dominio personale, ma, a quanto ne sappiamo, in nessun caso si tratta di entità territoriali e politiche rilevanti e, tanto meno, di civiltà urbane paragonabili a quelle del Vicino Oriente Antico.
Col tempo va costituendosi un numero crescente di dominî, dove diversi gruppi clanici e tribali sono uniti sotto un capo comune, che è prescelto in virtù delle sue qualità personali e in vista del perseguimento di una qualche utilità di interesse generale, il più delle volte attraverso azioni armate. Il capo non rimane in carica a vita, ma solo fino a quando appare adatto a svolgere il suo ruolo o fino a quando non emerge un nuovo personaggio, più capace e più forte, in grado di soppiantarlo. Solo i domini più estesi e duraturi riescono a meritare l’onore di un nome: Goti, Ostrogoti, Visigoti, Vandali, Unni, franchi, Longobardi, Eruli, Suebi, Bavari, Frisoni, Cimbri e Teutoni, insieme ad altre decine di nomi rilevanti, che sono ricordati dalla storia, costituiscono solo la parte emergente dell’iceberg, mentre la parte sommersa è rappresentata da una miriade di piccole tribù, che rimarranno senza nome e senza storia. Quei nomi “eccellenti” sono, dunque, il risultato dell’azione di alcuni capi ambiziosi e fortunati, che, allo scopo di perseguire qualche obiettivo comune, come quello di sfruttare meglio il territorio, depredare una tribù vicina, difendersi dalla minaccia di un nemico comune o intraprendere un’azione di conquista, riescono a riunire un certo numero di tribù e farle convivere come se fossero un unico popolo, almeno per qualche tempo.
Ad essere favoriti sono certamente i domini maggiormente attenti a ciò che succede sia al proprio interno che all’esterno. Sapere che un capo-clan medita propositi antitetici ai propri interessi può motivare un altro capo ad agire in un modo appropriato; sapere dell’esistenza di una popolazione debole o in crisi, può indurre un capo tribù ad organizzare una spedizione armata, allo scopo di razziare il suo territorio; sapere che il capo di un dominio sta tentando di espandersi, può indurre un capo tribù a sottomettersi spontaneamente o di cercare a sua volta l’alleanza con altri capi tribù allo scopo di difendersi o di tentare un contrattacco, oppure di cercare altri spazi, in cui insediarsi. Molto sviluppata dev’essere, dunque, la rete di informazione e intensa l’attività diplomatica e di spionaggio dei capi tribù e dei loro “aiutanti”. È in questo quadro che vanno visti gli sconfinamenti di tribù barbariche, che razziano quel che possono e si spingono, se non trovano resistenza, fin nel cuore dell’impero, oppure si limitano ad esercitare una pressione di confine o accettano le condizioni offerte loro dai romani.
Grazie a questa fitta rete di rapporti, alcune popolazioni barbariche vengono raggiunte dal messaggio cristiano e i capi più ambiziosi e più aperti alla “modernità” non si lasciano sfuggire l’occasione di abbandonare il vecchio politeismo tribale e accogliere la nuova e più evoluta religione, che consente loro di coltivare sogni di potere prima inimmaginabili, ossia di diventare re di grandi popoli. Generalmente è la versione ariana del cristianesimo (quella che ammette l’esistenza di un solo Dio e nega la divinità di Cristo e dello Spirito Santo) ad attecchire presso le popolazioni barbariche, perché risulta più facilmente comprensibile e accettabile.
Fino al III secolo a nessun capo barbaro viene l’idea di conquistare l’impero romano, tanto profondo è il divario culturale, organizzativo, politico e militare fra i due mondi. Per il momento, i barbari vedono nei territori romani solo dei luoghi ricchi di beni da depredare e sfruttare. Così avviene che, fra II e III secolo, sotto la guida di un capo, Catti, Alemanni, Goti e franchi superano ripetutamente i confini dell’impero, seminando paura e saccheggiando a più non posso. Nel IV secolo, man mano che l’impero si indebolisce, queste incursioni divengono sempre più frequenti e audaci, e i romani, facendo sempre più difficoltà difendersi, imparano a far buon viso a cattiva sorte e cominciano ad arruolare i barbari nei propri eserciti e a consentire il loro insediamento nei territori dell’impero, in prossimità dei confini, in pratica impiegandoli come scudo difensivo. Ma ciò non si rivela sufficiente ad arrestarne gli attacchi, che ormai si susseguono senza tregua, e culminano nella sonora sconfitta inflitta ai romani dai visigoti ad Adrianopoli (378), sconfitta che non rimarrà isolata. A lungo, le regioni dell’impero rimangono in balìa degli attacchi disordinati di orde barbariche, che accarezzano l’idea di una vita migliore e la possibilità di impadronirsi di un mondo da sogno, dove nessuno dovrà più soffrire la fame e tutti potranno vivere da gran signori. Lo stato di guerra continua e lo stretto e duraturo contatto con la superiore cultura di Roma, fanno sì che i barbari si diano un’organizzazione sempre migliore e maturino la coscienza della loro arretratezza e si civilizzino. In una parola, si rafforzano.
La relativa debolezza dell’impero romano è vista da molti leader barbari come una ghiotta occasione per unire sotto il proprio comando diverse tribù, con la promessa di guidarle verso una vita migliore. «A Occidente -vanno dicendo- ci sono terre in abbondanza, ricche di ogni bene, che aspettano solo di essere conquistate. Quale migliore occasione per unirci e partire? Se la sorte ci sarà favorevole e riusciremo a sconfiggere i romani, avremo terre in abbondanza e potremo vivere nella bambagia.» Allettati da questa prospettiva, molti capi clan accettano di buon grado di stringersi sotto la guida di un capo comune e, così, decine di migliaia di uomini cominciano a muoversi in massa all’inseguimento di un sogno. Alle loro spalle non lasciano case, perché non ne possiedono, e nemmeno proprietà private di terre, dal momento che non conoscono la proprietà privata: tutti i loro averi consistono in una tenda, gli abiti che hanno addosso, qualche utensile, cibo per due o tre giorni, armi, animali e qualche carro. I barbari, perciò, non hanno necessità di mettere radici profonde in alcun luogo, ma sono sempre pronti a rimettersi in cammino se un qualsiasi evento li minaccia: in genere si tratta di carestie o nemici che incombono.
Ad ondate e disordinatamente, queste rozze popolazioni barbare si muovono alla ricerca di bottini e di terre in cui stabilirsi. Esso non ha una meta precisa: saranno le circostanze del momento a guidarle. Di solito i barbari riescono ad occupare un territorio con relativa facilità, ma non altrettanto facilmente si rivelano capaci di conservarlo, perché vengono spazzati via da altri barbari, che sopraggiungono, o da qualche generale romano. Talvolta, però, e sempre più spesso, essi riescono a conservare le loro conquiste e vi creano un regno stabile.
Così avviene per i franchi, che sono divisi in due principali gruppi: i Salii e i Ripari. Combattendo contro eserciti romani, ma anche arruolandosi come federati, alla fine, intorno alla metà del III secolo, riescono ad insediarsi sulle rive del Reno inferiore e, due secolo dopo, si uniscono sotto un capo comune, Clodione, e danno inizio ad un esaltante capitolo di storia, di cui ci occuperemo più avanti.
Così avviene per i visigoti, che dapprima si stabiliscono in Dacia, poi, attaccati dagli Unni, penetrano nell’impero romano, si scontrano con l’esercito dell’imperatore Valente e lo sconfiggono (378). Per quattro anni devastano la penisola balcanica, poi accettano di arruolarsi come federati al servizio dell’impero. Nel 410, guidati da Alarico, saccheggiano Roma, quindi passano in Gallia e in Spagna, dove si insediano (415). Verranno sconfitti prima dai Merovingi (507), poi, definitivamente, dagli Arabi (713).
Così avviene per i vandali, che per due anni devastano la Gallia prima di penetrare in Spagna (409). Dopo essere stati riconosciuti federati dall’impero romano (412), essi vengono attaccati dai Visigoti e si spostano a sud (428), dove fondano un regno barbarico, comprendente Corsica, Sardegna, Sicilia e Cartagine, che verrà abbattuto dai bizantini nel 534.
Così avviene per gli alamanni, che, vedendosi circondati da popolazioni temibili (a nord Frisoni, Sassoni e Longobardi, a est Burgundi e Vandali, a sud Marcomanni e Quadi, a ovest Roma), decidono di dirigersi dove la resistenza è minore, ossia a ovest, verso l’impero romano. Essi semplicemente cercano un nuovo territorio dove insediarsi, che offra sufficienti risorse e dove possano piantare le loro tende e vivere in sicurezza. Più volte si scontrano con gli eserciti romani, con alterne vicende. Infine si insediano in Alsazia, da dove vengono cacciati da Giuliano (357) e poi nella Svizzera orientale, dove verranno sconfitti da Clodoveo (496).
Così avviene per i burgundi, che, all’inizio del V secolo, costituiscono un regno sulla riva sinistra del Reno, con capitale Worms. Sconfitti dagli Unni (437), passano in Gallia, dove fondano un nuovo regno (443), che verrà conquistato dai franchi (534).
Così avviene per gli svevi, che, agli inizi del V secolo, riescono ad attraversare la Gallia e la penisola iberica, riuscendo infine ad insediarsi nel nord-ovest della stessa, pressappoco nell’attuale Galizia, dove fondano un regno, che sopravvivrà fino al 585.
Il primo capo barbaro in grado di costituire un regno duraturo in Italia è Odoacre (476-493), un ufficiale della guardia imperiale romana, che sa approfittare dell’estrema debolezza di Roma per convincere truppe barbariche di diversa origine, eruli, sciri, rugi e turcilingi, a mettersi ai suoi ordini, allo scopo dichiarato di impadronirsi dell’impero. Se mi seguirete, dice Odoacre agli altri capi barbari, io vi condurrò alla vittoria, dividerò con voi le terre conquistate e insieme terremo sottomesse le popolazioni indigene con la forza delle nostre armi e ci faremo servire da esse, così che potremo vivere da gran signori. Certo i timori non mancano e alcuni capi si chiedono se Odoacre sarebbe in grado di opporre una valida resistenza al prevedibile contrattacco da parte dell’imperatore d’Oriente, ma alla fine prevale la tentazione dell’obiettivo immediato e l’esercito barbarico si muove con entusiasmo al seguito di quell’audace, che, rispettando il programma, depone l’ultimo legittimo imperatore di Roma, Romolo Augustolo, e assume il controllo della penisola italica (476).
Avendo già militato per diversi anni come ufficiale nelle fila dell’esercito romano, Odoacre è sufficientemente intelligente per rendersi conto che non può conservare a lungo le sue conquiste solo con l’uso della forza e che la costituzione di un grande Stato comporta una serie di nuove esigenze, che necessitano di una solida organizzazione sociale, un valido apparato burocratico e un adeguato sistema giuridico, tutte cose che richiedono la conoscenza della scrittura e adeguate competenze, di cui i suoi uomini sono carenti. Perciò, invece di distribuire ai suoi generali tutte le terre conquistate, come aveva promesso, egli si limita ad espropriarne circa un terzo e lascia le altre alla cura dei vecchi proprietari, che però sono tenuti non solo a versare un tributo ai vincitori, ma anche a collaborare con loro assumendosi la funzione amministrativa. Dimostrando un acume politico sorprendente, Odoacre riesce, in questo modo, a superare il problema che ha di fronte, semplicemente mantenendo la struttura sociale esistente e servendosi degli stessi funzionari romani, mentre tiene per sé, in esclusiva, le funzioni militari e instaura una dittatura militare.
Non basta. Odoacre si preoccupa anche di legittimare la sua posizione, facendosi riconoscere dall’imperatore d’Oriente, e consolida i confini del suo regno, stringendo rapporti d’amicizia coi Visigoti. Le premesse per un governo stabile ci sono e, difatti, Odoacre può regnare per ben diciassette anni. Rimangono le profonde differenze culturali, di lingua e di tradizioni, che separano i due mondi, il romano e il barbarico, e li rendono sostanzialmente estranei. Di fatto, le due popolazioni rimangono culturalmente separate e legate fondamentalmente da rapporti di forza oltre che dalla comune fede in Cristo. In definitiva, la cultura romana viene preservata, non solo nei suoi aspetti laici e civili, ma anche in quelli religiosi, rimanendo il cristianesimo la fede dominante, sia pure nelle sue due varianti principali: il cristianesimo romano, che crede nella natura divina di Cristo, e quello ariano, che crede in un Dio unico. Nonostante la sua valida organizzazione, il regno di Odoacre, non dura a lungo. Esso però non crolla per incapacità di reggersi da solo, bensì per la maggiore forza di un altro capo barbaro, il goto Teodorico.
Preso atto della caduta di Roma, l’Impero d’Oriente deve badare a difendersi per non cadere a sua volta, e, pur di sopravvivere e liberarsi dalle orde di Teodorico (493-526), che stanno saccheggiando le sue terre, non esita ad offrire loro Roma, come merce di scambio. Sconfitto e ucciso il rivale, Teodorico si insedia sul suo trono e governa in modo non sostanzialmente diverso. Anch’egli trasferisce alla propria gente solo un terzo delle terre conquistate, quelle sottratte ai barbari di Odoacre, mentre lascia il resto ai romani, ai quali continua ad affidare l’amministrazione del regno, privandoli nel contempo del diritto di portare armi; anch’egli si preoccupa di rendere sicuri i confini del suo regno e, a tal fine, stabilisce rapporti distesi con i potenziali nemici, i Visigoti, i Burgundi, i Vandali e i franchi, con i quali stringe legami di amicizia sanciti da matrimoni politici. Mantiene anche la divisione tra barbari e romani, che è resa più netta dalla proibizione dei matrimoni misti e del passaggio dal cristianesimo ariano a quello romano, e viceversa.
Restano, dunque, le profonde differenze culturali fra le due popolazioni, e ciò crea qualche problema. In particolare, il diritto romano, che è fondato sui principi della famiglia, della stratificazione sociale e della proprietà privata, mal si adatta ai costumi barbari che, a loro volta, sono centrati sulla vita comunitaria ed egualitaria della tribù. Per risolvere questo problema, Teodorico si serve delle più eccelse menti del suo tempo, come Cassiodoro e Severino Boezio, cui affida il compito di avvicinare il diritto romano alle consuetudini delle popolazioni barbare e costituire una sintesi delle due culture in modo da renderne possibile un’armonica convivenza.
Da parte sua, Teodorico vuole presentarsi non come soggetto di rottura, ma come garante di continuità col passato e, animato da questo intento, stabilisce la propria residenza a Roma, proprio sul colle Palatino, nella stessa residenza dei Cesari, rispetta il seppur decaduto senato romano, s’impegna anche a riportare la città al suo originario splendore, restaurando i palazzi e le opere urbane di maggior pregio, e ripristina le antiche usanze imperiali, come quella di distribuire cibo al popolo e, cosa molto più importante per lui, quella di tramandare il potere di padre in figlio in successione dinastica. Analogamente a quanto erano soliti fare i Cesari, anche Teodorico, pur mostrando rispetto per la chiesa, si immischia nei suoi affari e riesce ad insediare sul trono pontificio un proprio candidato: Felice IV.
Felice IV (526-30) rivela buone qualità politiche e riesce a strappare ad Amalasunta, reggente del re Atalarico, un editto, che conferisce al papa il diritto di giudicare le contese che vedano implicato un religioso. È il primo passo verso il riconoscimento ai religiosi del privilegio di non dover rendere conto al tribunale secolare. Rimane il problema dell’elezione papale, che si presta alla simonia e al mercimonio. È lo stesso senato romano a denunciare di essere vittima di tentativi di corruzione da parte di prelati, che, si servono dei beni della chiesa per comprarsi il voto dei senatori più influenti.