I futuri franchi irrompono nella storia nella metà del V secolo, quando, prima Clodione e poi il successore Meroveo (fondatore della dinastia merovingia) riescono ad unire intorno a sé un certo numero di capiclan, in un momento di grande fermento e accesa competizione fra le popolazioni barbare, che si trovano insediate in Gallia (Visigoti e Burgundi a sud, franchi e Alemanni a nord), mentre l’impero romano sta crollando. In qualità di fedeli federati di Roma, i re merovingi combattono a fianco dei romani contro altre popolazioni barbariche, ricevendo in cambio terre e potere. Alla fine, lo Stato merovingio assume i connotati di un’aristocrazia militare fondata sulla guerra, dove il “potere è interamente accaparrato da un piccolo numero di grandi proprietari” (PERROY 1955: 113).
La guerra “è in realtà una razzia, e il bottino e le terre conquistate forniscono al sovrano sempre nuovi mezzi per ricompensare coloro che lo servono bene e per guadagnare l’amicizia degli altri” (PERROY 1955: 114). Si costituisce così una “piccola casta di proprietari fondiari” (PERROY 1955: 20), che sono liberi di condursi come meglio credono, naturalmente dopo che sono fatti salvi gli obblighi nei confronti del re. Ogni tentativo di ribellione è represso brutalmente e su tutto domina la forza delle armi. Gli interessi culturali decadono e ognuno tende a farsi giustizia da sé. Il regresso della civiltà è evidente.
La potenza merovingia raggiunge l’apogeo sotto il figlio di Childerico,
Clodoveo (481-511), il quale, abbandonata la politica del padre, punta ad eliminare senza tanti complimenti ogni possibile rivale ed alla conquista di nuovi territori, che diventano proprietà privata del condottiero e dei suoi amici. Divenuto capo incontrastato dei franchi salii, Clodoveo si trova a competere con Sigiberto lo Zoppo, re dei franchi ripuari, il suo più temibile antagonista, e con altri capi di tribù minori, ed ha la meglio su tutti. Le sue doti migliori sono la ferma volontà di dominio, l’astuzia e la spietatezza. Clodoveo stabilisce subito buoni rapporti con i vescovi locali, che in generale sono personaggi di estrazione senatoriale assai influenti e ben organizzati, anche militarmente, e si fa battezzare, insieme a migliaia di suoi soldati, divenendo così, agli occhi dei cattolici, un “nuovo Costantino”, unico re barbaro legittimo, il vero erede del potere romano in Gallia. La religione fornisce a Clodoveo una struttura culturale ed etica, di cui il regno merovingio è carente, oltre che uno strumento di dominio, di cui il re si serve per sottomettere i Visigoti e gli Alemanni e impadronirsi di buona parte della Gallia.
Sulle ali del successo, Clodoveo continua a giocare le sue carte con inflessibile determinazione. Dapprima convince Cloderico, figlio di Sigiberto, ad uccidere il padre, quindi mette a morte il giovane con lo scopo dichiarato di punire il suo gesto e, quasi senza colpo ferire, estende in tal modo la sua sovranità sui franchi ripuari, sostenuto da un’opinione pubblica abilmente sensibilizzata sull’opportunità di imporre il cristianesimo a popolazioni pagane e di realizzare una pace cristiana. Reso più forte dalla nuova condizione, non ha difficoltà a sbarazzarsi degli altri concorrenti minori, sì da estendere il suo dominio a tutta la Gallia, con l’eccezione della Settimiana, della Burgundia e della Provenza. Alla fine, Clodoveo appare il paladino del cattolicesimo e, come tale, si contrappone a tutti gli altri re barbari ariani. Sono così create le premesse per un successivo scontro ideologico, che si verificherà puntualmente negli anni a venire e si rivelerà vantaggioso per i discendenti di Clodoveo, che, allo scopo di legittimare la propria posizione, mettono in circolazione la voce, secondo cui i franchi discendono dagli antichi Troiani e sono eletti da Dio per difendere la sua Chiesa e per dominare il mondo. Ecco come nasce e si consolida la nobile dinastia merovingia, che è legittimata dall’imperatore, il quale assegna a Clodoveo i titoli di console e patrizio.
Prima la conquista, poi la legittimazione, infine il diritto, che ha lo scopo di rendere stabili i rapporti di forza. Clodoveo, dunque, organizza il regno e lo dota di un apparato amministrativo e di leggi scritte, la cosiddetta Lex Salica, che delinea una società piramidale: al vertice c’è il re, considerato il padrone di tutte le terre conquistate, insieme agli uomini della sua corte, che costituiscono il centro del potere politico, seguono i franchi, cui è riconosciuto uno status superiore, infine i sudditi sottomessi. Il regno viene suddiviso in tante civitas, distretti o diocesi, ciascuna affidata ad un vescovo con funzione di principe (signorie vescovili). I signori locali giurano fedeltà al re e si impegnano a rispettare la legge, mentre il re si assume l’onere di assicurare la pace e provvedere alla difesa comune. Concretamente, l’amministrazione dello Stato è affidata ad un maggiordomo (
maior domus), o maestro di palazzo, che, in origine, è semplicemente il capo dei domestici reali.
La monarchia merovingia presenta elementi di debolezza, che consistono non solo nel tipico vezzo autonomista, che accomuna tutti i barbari, ma anche nella particolare concezione patrimoniale dello Stato, che contraddistingue i franchi e che è sancita dalla legge. In pratica, alla morte del re, il regno dev’essere diviso in parti uguali tra i suoi figli, come qualsiasi altra proprietà privata. Il rischio è quello della frammentazione e della guerra fratricida fra gli eredi, e questa è la ragione per cui, alla fine, il regno dei franchi si frammenta in una pluralità di piccoli regni, i più importanti dei quali, l’Austrasia, a nord-est, che è abitata dai franchi Salii, e la Neustria, a nord-ovest, che è abitata dai franchi Ripuari, sono impegnati in lotte accanite per la supremazia, che inizialmente arridono alla Neustria.
Con la morte di Dagoberto (629-639), che è l’ultimo dei merovingi in grado di mantenere la sua autorità sul regno nel suo complesso, inizia il declino della dinastia, perché i suoi successori, per lo più minorenni o adolescenti, oppure malati, deboli o squilibrati, si comportano da “fannulloni” e sono esautorati dal “maggiordomo”, che diviene una specie di Primo Ministro, con facoltà di esercitare il potere esecutivo e influenzare il re in ogni sua decisione. Ben presto si sviluppa un’accesa competizione per quella carica fra le famiglie aristocratiche, che culmina nel riconoscimento del diritto a trasmettere quel titolo ai figli: è un tentativo di scongiurare guerre fratricide e preservare la stabilità politica, che però non raggiunge lo scopo.
Intorno al 615 assume la carica di maestro di palazzo Pipino il Vecchio, o di Landen, un ricco proprietario terriero e membro dell’aristocrazia d’Austrasia, il quale dà la figlia Begga in sposa ad Ansegiso, figlio di un altro ricco proprietario terriero, Arnolfo, vescovo di Metz (635). Da questa unione nasce Pipino il Giovane, o d’Héristal, da cui prenderà origine la potente casa dei Pipinidi e la dinastia dei Carolingi. Nel 680 Ebroin, il maggiordomo di Neustria, dopo aver massacrato i suoi competitori aristocratici, attacca e sconfigge l’Austrasia, ma viene assassinato. Nello stesso anno diviene maggiordomo d’Austrasia Pipino d’Héristal, il quale, dopo avere sconfitto e ucciso il collega Bertarido di Neustria (687), diviene di fatto il sovrano della Gallia, anche se lascia sul trono il re Merovingio: non si sente ancora abbastanza forte da rovesciarne la dinastia.
Gli succede il figlio Carlo (714), detto Martello, cioè piccolo Marte, per le sue qualità di guerriero, che ingrandisce il regno e, soprattutto, ferma gli Arabi a Poitiers, ciò che gli conferisce una grande fama e la simpatia del papa. Nel 721 egli è riconosciuto maggiordomo di Neustria e Austrasia. Dal 737, anno in cui il trono dei Merovingi rimane vacante, Carlo è, di fatto, il re dei franchi, anche se non in modo formale: il problema rimane quello dei competitori, che sono tanti e aspettano solo l’occasione per tentare una propria scalata al potere. Morto Carlo Martello (741), si scatena la lotta per il potere fra i suoi figli Pipino il Breve e Carlomanno, i quali, per frenare le iniziative degli oppositori, si affrettano a rimettere sul trono il re merovingio Childerico III (743).
Alla fine,
Pipino il Breve (747) riesce a imporsi su tutti, ma è perfettamente consapevole che, a causa della sua illegittimità, dovrà sempre guardarsi dai numerosi pretendenti al trono. Childerico è un semplice re fantoccio, e questo lo sanno tutti. Pipino è dunque un usurpatore e sa che, prima o poi, qualcuno cercherà di approfittare di un suo momento di debolezza per rovesciarlo. Il rischio dell’ennesima guerra fratricida per la conquista del potere è concreto. Allo scopo di garantirsi la fedeltà dei propri funzionari, Pipino distribuisce loro delle terre, sotto forma di “beneficio” vitalizio, che, ben presto, diventeranno un bene di famiglia, ereditabile, ma ciò non basta a Pipino per fargli dormire sonni tranquilli. Egli è pur sempre un usurpatore, e ciò lo rende facilmente vulnerabile. È in questo contesto che entra in scena il papa, che, al momento, è
Zaccaria (741-752).
Non si sa chi abbia cominciato per primo, dal momento che i contatti vengono svolti in segreto, ma è certo che, tra Zaccaria e Pipino, si stabilisce un’intesa. È difficile credere che sia Pipino a chiedere al papa la consacrazione, a causa del rischio che deriverebbe al maestro di palazzo in caso di diniego: sarebbe come ammettere pubblicamente la sua illegittimità e autorizzare i suoi nemici a muoversi contro di lui. Piuttosto è da ritenere che sia il papa a prendere l’iniziativa e ad offrire a Pipino una piena legittimazione in cambio del suo intervento militare in Italia, e Pipino non può certo lasciarsi sfuggire quell’occasione, anzi, l’accetta senza riserve, impegnandosi a scacciare i Longobardi e i bizantini dall’Italia e a donare le loro terre al papa. Anche il papa accetta, e fa bene, perché ha solo da guadagnare e nulla da perdere. Infatti, se Pipino perde, dovrà sì rassegnarsi ad essere un semplice vescovo longobardo o un subordinato dell’imperatore, ma se Pipino vince, potrà contare su un vasto regno personale, e poi si vedrà.
Forte di questo accordo, Pipino si risolve a deporre Childerico III e si insedia sul trono (751). Adesso urge la legittimazione da parte del papa, che però non sta bene e muore di lì a poco (752). Vi provvede San Bonifacio: è lui a officiare il rito di consacrazione (752), che viene ripetuto due anni dopo dal nuovo papa, S
tefano II (752-7), il quale, recatosi personalmente in Francia, unge Pipino, insieme ai suoi due figli, Carlo e Carlomanno. Basta quel gesto a legittimare, agli occhi dei cattolici franchi, la nuova dinastia e a porla al riparo da eventuali attacchi di altri pretendenti al trono. Nello stesso tempo, professandosi difensore del papa e della chiesa di Roma, di fatto, Pipino si candida a capo di un ricostituendo impero universale, erede di quello romano. Insomma, da re illegittimo Pipino diventa aspirante imperatore!
Il debito di riconoscenza da parte di Pipino è enorme e il papa ne è perfettamente consapevole. Egli sa che può contare sul sollecito aiuto del re franco nei suoi difficili rapporti coi Longobardi e si prepara adeguatamente, mentre aspetta il giorno propizio. Intanto, di ritorno a Roma, Stefano II dà ordine ai suoi funzionari di allestire un documento falso, che egli poi avrà cura di presentare a chi di dovere e al momento opportuno. In quel documento, che passerà alla storia col nome di
donazione di Costantino, si attesta che il grande imperatore Costantino, per ringraziare papa Silvestro I, che lo ha guarito dalla lebbra, gli ha donato tutta la parte occidentale dell’impero e si è trasferito ad Oriente. Non è noto l’anno esatto in cui il falso documento viene concepito ed elaborato: secondo alcuni, esso è opera di Stefano II, secondo altri, la sua composizione va collocata intorno al 761 sotto il pontificato di
Paolo I (757-67), ma ciò non cambia la sostanza delle cose.
L’occasione che il papa aspetta si presenta qualche mese dopo, allorché, il re longobardo Astolfo (749-56), dopo aver conquistato Ravenna (751), minaccia Roma. Chiamato in aiuto da Stefano II, Pipino accorre senza indugio e, sconfitto Astolfo, dona al papa i territori dell’Esarcato sottratti ai Longobardi, inaugurando, con questo gesto, la nascita dello Stato pontificio (756). L’imperatore bizantino protesta: quel territorio appartiene di diritto all’impero. A questo punto il papa esibisce il falso documento della donazione costantinina che, in qualche modo, pone termine alla questione. “Per tutto il Medioevo la falsa Donazione di Costantino rappresenterà la giustificazione del potere temporale dei pontefici” (CHIOVARO, BESSIÈRE 1996: 43). Il falso verrà smascherato solo nel XV secolo, nel corso delle controversie che opporranno il papa a re e imperatori.
Nel volgere di pochi anni, il quadro politico è profondamente cambiato. Uno dei protagonisti, i Longobardi, è uscito dalla scena, mentre il vescovo di Roma si è emancipato dal rapporto di dipendenza dall’imperatore bizantino ed ha accresciuto notevolmente il proprio prestigio. Da questo momento, il papa non è più soltanto un’autorità religiosa e spirituale: egli è anche un’autorità politica e, per di più, ha il potere di legittimare il titolo dei sovrani, come sta a dimostrare il caso di Pipino. Il suo potere, insomma è smisurato. Il terzo protagonista è Pipino che, da semplice maggiordomo che era, ora aspira ad un impero universale. È l’uomo nuovo, che forma, insieme al papa, una coppia formidabile. Da questo momento, il re dei franchi si assume il compito di difendere la Chiesa e le sue leggi, il papa “quello di assicurare l’assistenza divina sulle armi dell’imperatore” (GATTO 2003: 27). Il quarto protagonista, l’imperatore bizantino, perde la sua autorità sul vescovo di Roma e la sua influenza sull’Occidente, e diviene una figura marginale in questa parte del mondo. Nello stesso tempo, si apre un solco tra la chiesa cristiana d’Oriente e la chiesa romana. La prima, riproponendo lo schema classico, rimane centrata sulla figura del vescovo e sul riconoscimento del primato dell’imperatore, la seconda, invece, inaugurando uno schema mai visto in precedenza, riconosce al papa uno status superiore e il potere di consacrare l’imperatore.
Alla morte di Pipino, il regno viene diviso fra i due fratelli,
Carlo (768-814) e Carlomanno. Morto Carlomanno (771), Carlo non riconosce i suoi eredi e accentra tutto il potere nelle proprie mani, intraprendendo una politica espansionistica, che, grazie anche all’appoggio del papa, Adriano I, gli consente di creare un vasto impero, meritandogli l’appellativo “magno”. Nel 774 Carlo sconfigge il re longobardo Desiderio e cinge la corona ferrea. Poi, accompagnato dalla benedizione del papa, muove il suo esercito verso nuove conquiste: prima stermina i Sassoni e li costringe con la forza a convertirsi al cristianesimo, poi si rivolge contro gli Avari e gli Arabi. Nell’800 papa Leone III (795-816) consacra imperatore Carlo, e il gesto è di quelli che lasciano il segno, perché si presta ad essere interpretato come conferma del principio, secondo il quale il potere dell’imperatore deriva da quello del papa, cosa che, in realtà, è estranea al pensiero del sovrano, il quale, rendendosi conto del rischio di strumentalizzazioni, quando deve regolare la successione in favore del figlio Luigi, a scanso di equivoci, pretende che il figlio si ponga la corona in testa con le proprie mani (MONTANELLI, GERVASO 1997: 13).
La superiore autorità di Carlomagno, comunque, è tale che il papa non si sogna nemmeno di metterla in discussione: per il momento, gli basta di essersi emancipato dal controllo dell’imperatore d’Oriente e di poter esercitare una quasi piena sovranità universale in campo religioso e una discreta autonomia politica, sia pure limitata al proprio regno. Adriano I (772-95) è come un re: ha la sua corte, i suoi funzionari, il suo esercito e tutto quello che serve ad un regno. Di norma, egli assegna i posti migliori nella cerchia dei propri parenti e gestisce il potere come un semplice affare di famiglia e anche per acquisire ricchezze materiali, che, in parte, vengono destinate ad abbellire la città. Con Adriano, entra in scena la piaga del nepotismo, che tanta parte avrà nella storia del papato. Per il momento Adriano non può sperare di più e si deve accontentare.
Da parte sua Carlo si comporta come successore di Davide e sommo rappresentante di Dio sulla terra e, pertanto, esercita un potere assoluto, non solo in campo politico, ma anche in quello religioso, come dimostra il fatto che egli nomina i vescovi e convoca i concili. Il papa non può essere consacrato senza un mandato imperiale e deve giurare fedeltà all’imperatore prima di assumere le proprie funzioni. Carlo è “davvero, a tutti gli effetti, il vertice della gerarchia cattolica, e il papa poco più di un suo subordinato” (BARBERO 2000: 192). In quanto patrono della chiesa, Carlo è motivo di vantaggi per il papa e gli altri prelati, soprattutto sotto il profilo materiale (donazioni e privilegi), ma anche di svantaggi, come quello dell’ingerenza politica nelle questioni religiose e nella stessa elezione del papa. Di fatto, Carlo esercita la pienezza dei poteri e si serve della religione e della chiesa cristiana “come mezzo per la sottomissione delle popolazioni locali” e “come uno strumento di dominio” (BECHER 2000: 64). Il clero romano soffre di questa ingerenza e cercherà di liberarsene. Per il momento però nessuno all’interno della chiesa osa esprimere parole di critica nei suoi confronti, anche quando il suo comportamento non appare rispettoso dei precetti cristiani. La sua vita di poligamo, per esempio, verrà bollata solo dopo la morte.
Se la legittimazione dell’imperatore, sotto il profilo giuridico, viene dalla religione e dal papa, concretamente essa poggia sull’esercito. La macchina militare franca è poderosa. La sua forza si basa sulla superiorità numerica e sull’organizzazione. Le sue armi principali sono il cavallo e l’arco. Gli obblighi militari sono così gravosi che i più cercano di evitarli, ma non è facile. Tutti gli uomini liberi, compresi i prelati, sono tenuti a rispondere alla chiamata alle armi, ma di solito si ricorre alla leva di massa solo in caso di una grave minaccia d’invasione. Più frequentemente si arruola un numero di soldati adeguato al particolare scopo e si cerca di esentare gli uomini meno agiati, coloro che non possiedono né terre né schiavi, la cui partenza esporrebbe a gravi disagi gli altri membri della famiglia, ma spesso il signore interpreta in modo libero questi principî e favorisce i suoi amici. Col passare del tempo, la gente comincia a sentirsi stanca delle continue campagne militari, che comportano più oneri che gloria, più costi che bottino.
Nell’organizzare l’impero, Carlo si comporta in modo simile a quello di altri re barbari romanizzati, che lo hanno preceduto, come Odoacre e Teodorico, solo che adesso egli si muove in grande e col pieno appoggio del papa. Anche Carlo, come i suoi predecessori, deve comprare la fedeltà dei propri generali e funzionari, elargendo loro dei feudi, chiamati anche contee o marche, e facendo di loro conti e marchesi. Li lega all’imperatore un giuramento di fedeltà, che comporta il dovere di prestargli aiuto militare in caso di necessità. Sono i grandi feudatari o vassalli. A loro volta, questi signori possono affidare una parte del loro territorio ad un altro signore di rango inferiore (valvassore), il quale può fare altrettanto con un altro signore (valvassino), e così via. La società feudale assume così una struttura piramidale: alla base ci sono i signori di infimo rango, quelli che non controllavano altro che il proprio feudo, poi ci sono i signori di livello superiore e, infine, c’è il signore che non ha al di sopra di sé altri che Dio.
Accanto ai feudi vanno ricordate altre due istituzioni, di non minore rilevanza, che contribuiscono a caratterizzare la società medievale: i vescovati, che sono equiparati ai feudi, e le comunità monacali, che, oltre a controllare grandi territori, svolgono un’importante funzione culturale.
La piramide sociale non si esaurisce certo nel sistema vassallatico, ma si prolunga tanto in basso quanto in alto. Al di sotto del feudatario ci sono i funzionari, i soldati, gli artigiani, i mercanti, i contadini e, all’ultimo posto, i servi della gleba; al di sopra c’è l’imperatore e/o il papa, che incarnano l’idea medievale di potere universale; al vertice c’è Dio. In quanto derivante da Dio, il potere è considerato sacro e inamovibile, come pure l’intero ordinamento sociale, che viene inserito in un ordine cosmico perfetto e immutabile, di fronte al quale tutti devono assoggettarsi. Con l’eccezione dell’imperatore e/o del papa, ciascuno dipende da qualcun altro e l’intero potere politico ed economico obbedisce ad una logica di tipo clientelare. Dai sudditi ci si aspetta un’obbedienza incondizionata al loro sovrano e a tutte le altre autorità che lo rappresentano.
I più fortunati e privilegiati sono i sudditi liberi, che lavorano alle dipendenze dell’imperatore, seguiti da quelli che lavorano alle dipendenze di conti, vescovi ed abati, e da tutti gli altri. Meno felice è la posizione dei liberi proprietari e di tutti coloro che lavorano alle loro dipendenze. Schiacciati dagli obblighi tributari e militari, oltre che dai soprusi dei potenti, la loro esistenza si svolge all’insegna della precarietà, se non dell’indigenza, e i più si vedono costretti a vendere le proprietà e asservirsi, mentre solo pochi fortunati riescono ad entrare nel giro clientelare dei potenti. Alla base della piramide sociale si collocano i coloni, i liberti e gli schiavi, che continuano a rappresentare una larga fetta della popolazione, anche se non ai livelli dell’impero romano. Più numerosi sono i liberti che, di fatto, differiscono dagli schiavi solo per il nome. E, infatti, entrambi, schiavi e liberti, vengono abitualmente indicati col comune appellativo di servi. Per consuetudine i figli ereditano il ruolo del genitore e pertanto il sistema sociale è caratterizzato da una elevata stabilità e fissità.
All’interno del proprio feudo, ogni signore esercita un potere pressoché assoluto e, di fatto, si organizza a suo piacimento, amministra la giustizia, stabilisce le norme di legge, stringe accordi, sorveglia i confini, cura l’esercito, dichiara guerra e negozia la pace. Può fare ogni cosa in libertà, con l’unico limite di dover rispettate il giuramento di fedeltà all’imperatore, che, però, spesso si trova a grande distanza e non riesce a controllare adeguatamente i suoi vassalli, i quali, per parte loro, tendono a consolidare il proprio potere, possibilmente estenderlo e, soprattutto, renderlo ereditario e, perciò, vedono il giuramento all’imperatore come un fastidioso fardello, di cui farebbero volentieri a meno. L’imperatore, invece, vorrebbe limitare il potere dei vassalli e, soprattutto, evitare che esso diventi ereditario, al fine di evitare il rischio di trovarsi di fronte a competitori temibili.
Il patrimonio e le entrare dell’imperatore, chiamate “fisco”, sono immensi e comprendono un migliaio di aziende, chiamate
curtes o
villae, di varia dimensione, dove lavorano globalmente circa mezzo milione di persone: schiavi, liberti, affittuari. Ogni villa, che non occupa necessariamente un’area compatta, potendo essere inframezzata da piccole proprietà contadine o da appezzamenti di altre grandi proprietà, comprende due parti: una destinata a profitto esclusivo del signore, la
pars dominica, l’altra suddivisa in
mansi e data in affitto. Gli affittuari sono comunque tenuti a prestare gratuitamente un certo numero di giornate lavorative, chiamate
corvées, a favore del signore. Anche il patrimonio della Chiesa è immenso e anch’esso è controllato dall’imperatore. Carlo dona continuamente grandi complessi fondiari a vescovi e ad abati. È come se li affidasse alla loro amministrazione: il vero proprietario è lui. Vescovi ed abati hanno il dovere di ospitarlo gratuitamente tutte le volte che egli ne ha bisogno e di versargli periodicamente dei sostanziosi tributi. È ovvio che, a loro volta, vescovi e abati si rivalgono coi propri sudditi. Conti, vescovi e abati costituiscono i pilastri dell’ordinamento pubblico, sono nominati dall’imperatore e a lui rispondono. In realtà, si distinguono due livelli di vescovi: ad un livello superiore i metropoliti, o arcivescovi, ad un livello inferiore si collocano i vescovi diocesani, che dipendono dai primi.
Nell’alto medioevo, l’urbanesimo è scarsamente rappresentato e, pur ospitando la cattedrale e il vescovo, le città costituiscono centri secondari del potere politico ed economico. I feudatari preferiscono abitare nei loro castelli, che cominciano a sorgere maestosi nelle campagne e, insieme alla figura del cavaliere, si avviano a divenire il simbolo di tutta la società feudale. L’obiettivo principale dei signori è l’autosufficienza, non l’arricchimento e, anche se esiste la moneta, il mezzo più abituale delle compravendite rimane il baratto. Gli scambi commerciali sono scarsi, nonostante che l’imperatore si adopera per favorirli, anche attraverso l’uniformazione di monete, pesi e misure. L’economia è di tipo rurale e le condizioni di vita dipendono dal frutto della terra, che è variabile e incostante: basta un evento avverso (carestia, epidemia, guerra) per far entrare in crisi un’intera comunità. I contadini hanno tanti doveri e pochi diritti. Al signore devono pagare delle tasse, alla chiesa la decima parte del raccolto. Devono anche prestare lavori obbligatori e gratuiti (
corvées) nell’interesse del padrone. Devono infine pagare i servizi, che sono di proprietà del signore, come il pedaggio di una strada o di un ponte, l’uso di un forno, di un mulino, di un frantoio, e così via. Le donne sono considerate inferiori all’uomo e vivono in stato di sottomissione, al padre prima e al marito poi. Nel suo insieme, la società franca “è organizzata in funzione dell’istituto della grande proprietà” (PERROY 1955: 112) ed è di tipo schiavista. Il popolo è così sovrastato da ignoranza, insicurezza e paura, da non riuscire ad acquisire una chiara coscienza del proprio stato, né ad imporsi come una componente politica di rilievo.
La giustizia è amministrata dai singoli signori locali, che presiedono periodicamente un’assemblea pubblica, detta
mallus, dove ascoltano e giudicano le controversie, con la collaborazione di una giuria. Di solito vengono richieste prove scritte o la deposizione di testimoni; in loro assenza, si ricorre ad un giuramento per i reati più lievi, all’ordalia, o giudizio di Dio, per quelli più gravi. La forma più frequente di ordalia prevede che l’imputato immerga la mano in una pentola di acqua bollente o cammini a piedi nudi su tizzoni ardenti: se la scottatura guarisce entro un tempo prestabilito viene dichiarato innocente. Talvolta accusatore e accusato sono sottoposti alla prova del duello giudiziario, armati di scudo e bastone, oppure devono stare in piedi davanti ad una croce con le braccia levate: il primo che cede perde la causa (giudizio della croce). Non sono infrequenti i casi di corruzione dei giudici e di mala giustizia. A tale scopo l’imperatore emana a più riprese disposizioni scritte, i cosiddetti capitolari imperiali, ma questi non annullano, né si sostituiscono al diritto locale: semplicemente, nell’esprimere il giudizio, il signore cerca di armonizzare le esigenze della legge locale con la volontà dell’imperatore, ma l’impresa si rivela tutt’altro che facile. In ultima istanza è comunque possibile appellarsi direttamente all’imperatore.
Una preoccupazione di Carlo è quella di elevare il grado di istruzione della popolazione, che, per la maggior parte, è analfabeta. Anche se egli stesso sa appena leggere, comprende l’importanza della cultura, promuove la produzione libraria e fa ampio ricorso ai documenti scritti per meglio amministrare l’impero. Incoraggiati dall’imperatore, i copisti scrivono in modo chiaro ed elegante, badando ad evitare errori di copiatura, introducono anche l’uso della punteggiatura, il che certo contribuisce a migliorare la leggibilità del testo. Di pari passo, nell’impero si vanno diffondendo le biblioteche: la maggior parte dei testi sono di tipo religioso, ma non mancano i classici. Altre preoccupazioni di Carlo sono quelle di curare la formazione del clero, di elevarne il livello morale, che lascia molto a desiderare, e di uniformare, in tutto l’impero, le pratiche liturgiche e le verità di fede.
Talvolta l’imperatore si lascia coinvolgere in questioni dottrinali, con risultati sorprendenti, com’è il caso della questione del
filioque. Il clero franco ha introdotto questo termine, che manca nella versione originaria del Credo, che è in uso non solo nella chiesa orientale ma anche in quella romana. Giunta la questione al giudizio di papa Leone III, questi si pronuncia a favore della formula tradizionale e dà torto al clero franco, il quale, però, non contento, vuole anche sentire il parere dell’imperatore. Nell’809 si riunisce ad Aquisgrana un Concilio della chiesa franca e in quell’occasione Carlo non solo si pronuncia a favore del
filioque, ma invia anche una nota scritta al papa per informarlo del suo errore. Leone III non ci sta e continua ad usare il Credo nella sua formula tradizionale. Dovranno trascorrere due secoli, prima che il papa dia ragione a Carlomagno (BARBERO 2000: 266-7).
Nell’806 Carlomagno dispone che, alla sua morte, l’impero dovrà essere diviso fra i tre figli e solo il caso decide che, a sopravvivergli, sarà un unico figlio:
Lodovico il Pio (814-40). Per il momento l’unità dell’impero è salva. Intanto, approfittando della scomparsa di Carlo, alla cui forte personalità il papa aveva dovuto soggiacere, Pasquale I (817-24) riesce a strappare all’imperatore la promessa che non interferirà nell’elezione del papa e negli affari interni dello Stato pontificio. Ma già il suo successore, Eugenio II (824-7), deve accettare la supervisione imperiale sull’amministrazione di Roma, insieme al giuramento di fedeltà all’imperatore da parte di ogni papa neoletto e di tutti i cittadini romani. È nella Constitutio Lothari (824) che vengono fissate le nuove modalità dell’elezione papale. In particolare, si stabilisce che, prima di procedere alla consacrazione del neoeletto, l’elezione dev’essere approvata dall’imperatore d’Occidente (che, in tal modo, si sostituisce a quello d’Oriente). Siamo all’”apice della potenza imperiale sullo Stato pontificio” (RENDINA 1996: ). Sotto Sergio II (844-7) si conferma quanto sopra e si stabilisce che il papa non può essere consacrato senza un mandato imperiale. Per il momento la partita è chiusa a favore dell’imperatore.
Per scongiurare il pericolo di frammentazione dell’impero, Lodovico si affretta a proclamare unico successore il primogenito Lotario (817), escludendo gli altri due figli, che però, appellandosi al costume franco, aprono, alla morte del padre (840), una guerra fratricida. Gregorio IV (827-44) assiste impotente a questa lotta, che si conclude con il trattato di Verdun (843) e la spartizione dell’impero in tre parti: Lotario riceve la Lotaringia, Lodovico la Germania, Carlo il Calvo la Francia. Di fatto, è la fine di un sogno, durato meno di 50 anni. La Francia è ora costretta a subire le incursioni normanne, nei confronti delle quali, i re franchi appaiono impotenti.
Anche Roma è soggetta al pericolo saraceno e deve subire un’incursione (846). Leone IV (847-55) decide di correre ai ripari ed eleva una nuova cinta muraria a difesa della riva destra del Tevere, dove sorge il Vaticano. Nello stesso tempo abbellisce la città, che verrà chiamata
Civitas Leonina. Pericolo saraceno a parte, è un momento buono per Roma. Lotario chiede al papa di incoronare il figlio Lodovico (850) e lo stesso vale per altri regnati d’Europa. Se il papa conferisce titoli e legittimità ai potenti della terra, ciò vuol dire che egli è più potente di loro. Da questa coscienza prendono origine le cosiddette
Decretali di Isidoro, che, in aggiunta alla
Donazione di Costantino, pongono il papato in una posizione di dominio e creano le condizioni per una svolta epocale nella storia del papato.
07.1. Elezioni del papaNel IX secolo Roma è suddivisa in ventotto parrocchie, ciascuna delle quali è governata da un cardinale-prete, mentre il suo territorio provinciale è suddiviso in sette diocesi, ciascuna della quali è presieduta da un cardinale-vescovo. Questi trentacinque cardinali, insieme ai sette diaconi degli ospedali più importanti, ai sette giudici del palazzo del Laterano e ad alcuni dignitari della chiesa, costituiscono uno dei tre organi elettivi del papa, gli altri due organi essendo il popolo e l’imperatore. In pratica, le cose funzionano così. Quando muore un papa, il suddetto collegio indica il nome del successore e la loro scelta viene sottoposta al giudizio del popolo, che può approvarla o respingerla con applausi o schiamazzi. Se un papa è eletto con l’accordo di tutti, la sua consacrazione può avvenire solo dopo che l’elezione sia stata ratificata dall’imperatore e, a meno che non vi siano gravi motivi, di norma l’imperatore ratifica. Di norma, il papa è eletto dai nobili e dal clero romani, e ciò depone per una sua autorità essenzialmente locale. Se invece non vi è accordo, l’intervento dell’imperatore diviene inevitabile e determinante nella scelta. In ogni caso, il papa è tenuto a giurare fedeltà all’imperatore (GIBBON 1967: 1975).
L’angusta dimensione locale dell’autorità papale comincia ad essere superata, anche grazie alle Decretali, che vengono pubblicate in Francia, intorno all’850, sotto il nome del celebre vescovo di Siviglia. In realtà, come sarà dimostrato in seguito, si tratta di un documento falso, che è stato concepito e redatto da qualche vescovo, che, mal tollerando il controllo dei signori locali, si appella appunto alle Decretali, le quali sostengono che il vescovo dipende direttamente dal papa. In altri termini, nel tentativo di liberarsi dall’ingombrante peso dell’autorità locale, quel vescovo ha preferito accettare la dipendenza dal papa, che risiede nella lontana Roma: tale il senso delle Decretali. Quello sventurato non sa che sta consegnando al papa un’arma formidabile, di cui questi non esiterà a servirsi per estendere la sua autorità su tutta la chiesa.
Non passa, infatti, molto tempo che
Niccolò I Magno (858-67) brandisce proprio delle Decretali come arma contro re e vescovi. È emblematico il caso di Lotario, che ha ripudiato la moglie: nonostante la benedizione del suo nuovo matrimonio da un concilio di vescovi, deve piegarsi di fronte alla decisione avversa del papa, che dichiara nullo quel matrimonio. Niccolò afferma che nessun concilio può avere una forza vincolante e nessun vescovo può essere deposto senza l’approvazione del papa. I monarchi, insomma, non possono deporre un vescovo senza il consenso di Roma. È il ribaltamento di una tradizione secolare, un formidabile attacco ad una consolidata prerogativa dell’imperatore, anche se, in questo momento, non c’è alcun imperatore in grado di raccogliere la sfida e rispondere per le rime. La distanza che separa Niccolo I dai primi vescovi di Roma è così grande da escludere qualsiasi rapporto di continuità: si tratta di due istituzioni completamente diverse fra loro, accomunate soltanto dal progressivo allontanamento dallo spirito cristiano delle origini. A partire da Costantino, i papi si appellano sempre meno alle Sacre Scritture e allo spirito evangelico, e sempre più a documenti falsi, appositamente creati con scopi materiali e politici! Ma anche questo, in fondo, è un segno di debolezza, se non altro dal punto di vista spirituale.
Niccolò I aveva potuto comportarsi da sovrano assoluto e universale, ma dopo di lui, il papato attraversa un periodo di crisi, che è legata, in qualche modo, al declino dell’impero carolingio, e i suoi successori dovranno fare i conti con gli interessi contrapposti di re e vescovi. Quanto accade qualche anno più avanti, sotto il papato di A
driano II (867-72), è illuminante. Alla morte di Lotario, il regno dovrebbe passare, per diritto, a Lodovico II, ma Carlo il Calvo s’impossessa di quel regno e si fa incoronare e legittimare dal vescovo di Reims, Incmaro. In questo caso, benché si adoperi in mille modi, il papa non riesce ad evitare l’usurpazione. Da qui in avanti, si procederà con alterne vicende, ma con un papa sempre più cosciente del proprio ruolo e sempre più determinato a consolidarlo.
Giovanni VIII (872-82) entra nella lotta per il potere imperiale, che vede di fronte i due fratelli, Carlo il Calvo e Lodovico II, e parteggia per il primo: lo incorona a Roma, ricevendo in cambio molto denaro, insieme alla promessa di sostenere i disegni del papa medesimo. Più tardi, Giovanni potrà dire che l’imperatore è una sua creatura, ma resterà deluso. L’imperatore, infatti, non gli verrà in soccorso per liberarlo dal dominio dei saraceni e dalla vergogna di dover pagare loro un tributo. Lasciato solo in questa lotta, Giovanni decide di creare una piccola flotta, di cui egli stesso assume il comando e con la quale partecipa ad azioni di guerra, anticipando la figura di Giulio II. È un altro momento di svolta nella storia del papato: il papa scende in prima persona sul campo di battaglia. La distanza dallo spirito evangelico si fa più evidente.
Dopo la breve riunificazione dei domini imperiali compiuta dal figlio di Lodovico, Carlo il Grosso (884-7), la frammentazione dell’impero assume carattere definitivo e dà origine ai regni di Francia, di Germania e d’Italia. Nell’888 Carlo il Grosso muore e, con lui, si estingue la dinastia carolingia. Da ogni parte spuntano nuovi pretendenti ai vari troni e all’impero. Insieme al declino dell’impero franco, l’Europa deve subire, nel IX-X secolo, le invasioni barbariche e le incursioni piratesche, operate da magiari, avari, scandinavi e musulmani, che non sono meno disastrose per la cristianità occidentale di quelle del V-VI secolo, ad opera dei barbari.
In questo periodo turbolento, il papa non sta a guardare e continua a tessere le sue trame: ormai è un personaggio politico di prima grandezza, che brilla di luce propria e ama svolgere il ruolo di ago della bilancia nelle contese internazionali. Così, papa Formoso (891-896) decide di sostenere Arnolfo di Carinzia e lo incorona imperatore (896), ma ormai l’impero esiste solo di nome, ed è anche grazie alla sua debolezza che l’aristocrazia romana può alzare la cresta e condursi in modo del tutto indipendente. Il risultato è che il papato resta in balia delle grandi famiglie romane che, convinte di dovere e potere bastare a se stesse, si contendono il seggio di Pietro a suon di intrighi, aggressioni e violenze. Da questo momento, l’elezione del papa diventa un loro affare interno, un loro esclusivo terreno di caccia.
Sergio III (904-11) “è il primo papa che arrivi al trono pontificio per volere di una forte famiglia nobile romana” (RENDINA 1996: 253). Negli anni seguenti, i riflettori della storia metteranno in primo piano gli intrighi delle famiglie e lasceranno in ombra la persona del pontefice. Giovanni X (914-28) è l’ultimo papa capace d’imporre una propria personalità, prima di una lunga serie di papi-fantoccio, semplici pedine nel gioco di potere che agita l’aristocrazia romana. Il papato è ormai allo sbando: si occupa solo di politica e di questioni materiali e perde ogni prestigio morale. Alcuni papi, come Giovanni XII (955-64), si abbandonano alla vita sfrenata e ai piaceri della carne, e fanno del palazzo del Laterano “un vero e proprio bordello” (RENDINA 1996: 267). Lo spirito evangelico è assente, e la distanza dal Regno di Dio massima.
07.2. La Francia alla fine del X secoloIn un periodo di grande confusione e debolezza dell’impero emerge la figura di Roberto il Forte, il cui figlio Oddone viene eletto re di Francia (888-98). Alla morte di Oddone, il trono di Francia è conteso dai discendenti di Carlomagno e quelli di Roberto, i cosiddetti Robertini, che finiscono col prevalere e inaugurano, con Ugo Capeto (987-96), la dinastia dei capetingi, che manterrà il potere in Francia per i successivi ottocento anni.